Lettere dal direttore

Dylan, ovvero l’arte
dell’imperfezione

 Dylan, ovvero l’arte dell’imperfezione  QUO-115
24 maggio 2021

Ricordava Andrej Tarkovskij che «l’arte esiste proprio perché il mondo non è perfetto» e Albert Camus sottolineava che «se il mondo fosse chiaro l’arte non esisterebbe». Molto interessante a questo proposito la testimonianza di Bucky Buxter, chitarrista della band di Dylan degli anni Novanta: «Abbiamo stravolto centinaia di canzoni. E non c’era alcun criterio in questa interpretazione infinita. L’unico criterio era che ogni volta che riuscivamo ad arrivare alla migliore versione di una canzone non la suonavamo più». Quindi non appena l’esecuzione raggiungeva la soglia della perfezione, veniva accantonata, non interessava più. Ecco perché la maggior parte delle canzoni di Dylan vengono continuamente trasformate dall’infinita re-interpretazione che egli realizza nel suo never ending tour che dal 1988 non ha praticamente conosciuto pause (a parte quella del 2020 causa covid). Facciamo un paio di esempi, prendiamo One Too Many Mornings (1963), oppure Shelter From the Storm (1974): ascoltarle nella loro versione originale e poi nella loro “storia”, come in tutti questi decenni si sono sviluppate è un’esperienza affascinante. Perché lo stile di Dylan è aperto al libero gioco dell’ispirazione; se per molti artisti in studio si lavora di cesello per realizzare un prodotto finito, pulito, perfetto, per Dylan il contrario: l’album che esce dallo studio non è un punto di arrivo ma un trampolino di lancio, non un quadro bello e fatto, ma come la tavolozza dei colori del pittore, un magma da quale uscirà una creazione sempre in fieri, in via di perfezione, sempre in-compiuta. E ai suoi ascoltatori resta il rovello, forse inutile, di scegliere se prediligere la versione originale, il seme, o una delle tante versioni successive, i tanti frutti di questo albero di 80 anni.

A M.