Poeti in ginocchio davanti alla Vergine Maria

È questa la pienezza
della grazia?

El Greco, «La Vergine Maria» (1597)
22 maggio 2021

Sono numerosi in Italia i musei che nei loro vasti magazzini sotterranei custodiscono migliaia di opere d’arte antiche e moderne: un immenso tesoro nascosto che non può trovare materialmente posto negli spazi espositivi in superficie, dove i supremi capolavori delle arti figurative rifulgono all’interno di sale ora finalmente pronte, dopo la chiusura imposta dalle norme anti-covid, a riaprirsi con le dovute precauzioni al pubblico dei visitatori. Anche le biblioteche dispongono di depositi più o meno segreti, in scantinati o su scaffali di problematico accesso. Vi sono alloggiati manoscritti polverosi, incunaboli rinascimentali, voluminosi in-folio regolarmente catalogati ma abbandonati a un triste oblio secolare. Di quando in quando, tuttavia, bibliofili animati da una sana curiositas — maturi studiosi o giovani ricercatori — vedono la loro passione, il loro intuito, il loro talento premiati dalla scoperta, in mezzo a quegli sterminati giacimenti, di qualche “diamante” grezzo che, sottoposto a un trattamento di oreficeria filologica, stupisce per la sua imprevedibile brillantezza.

Angelo Lacchini, nato e residente a Castelleone (Cremona), poeta, critico e saggista, già docente di lettere nei licei, appartiene a questa categoria di cacciatori di preziosi reperti librari in attesa di essere ridestati da un lungo sonno. E ne ha dato prova rispolverando, lucidando e facendo scintillare cinque testi pressoché sconosciuti di Giovanni Giacomo Gabiano, da lui con acribia tradotti e postillati in Un umanista del Cinquecento lombardo: poesia latina di ispirazione religiosa e mariana (Ladolfi, 2020, pagine 200, euro 16).

Sulle tracce di Gabiano (Romanengo [Cremona], 1510 – Lodi, 1580), per una ventina d’anni professore al ginnasio lodigiano, Lacchini si era da qualche tempo avviato seguendo un duplice richiamo: da un lato la comune radice cremonese, dall’altro l’apprezzamento per l’opera maggiore di quel valente latinista e scrittore neolatino, la Laudiade, poema epico-didattico inteso a glorificare i meriti etici e civili della città di Lodi. Decisivo è risultato poi l’approccio all’antologia La poesia mariologica dell’Umanesimo latino, curata nel 2002 per le fiorentine Edizioni del Galluzzo da Clelia Maria Piastra. Da quella lettura è infatti scaturita, per associazione tematica, una serie di fruttuose ricerche condotte dallo studioso castelleonese presso la biblioteca del Seminario Vescovile di Cremona, le cui cinquecentine sono state in seguito confrontate con quelle della Braidense di Milano.

Contrariamente a quanto si potrebbe supporre, la produzione poetica connessa alla figura della Vergine non trasse un particolare impulso dallo svolgimento del concilio di Trento (1545-1563). I lavori conciliari, in effetti, concessero solo un’attenzione marginale alla teologia mariana: nel decreto sul peccato originale affiorò appena un accenno al mistero (dogma a partire dal 1854) dell’Immacolata Concezione. La mariologia poetica del Cinquecento attinse piuttosto il suo lievito dalla catechesi che la Controriforma, in opposizione alla propaganda protestante, innestò sul tronco della pietà popolare, con il supporto delle confraternite laiche.

Di devozione tradizionale era nutrita anche l’anima dello stesso Gabiano. Ma la sua formazione di umanista classico, saldata con la conoscenza di prima mano sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, lo sollecitò ad esprimere il sensus fidei diffuso tra il popolo lombardo attraverso il filtro di un linguaggio poetico forgiato alla scuola di Virgilio, Lucrezio, Ovidio e altri auctores della latinità, imitati nel tessuto lessicale, nel formulario retorico (con qualche forzatura barocca) e nel cangiante virtuosismo metrico. Dal distico elegiaco adottato per le Salutationes, in sostanza due monologhi vis-à-vis con il Crocifisso, si passa al dimetro giambico acatalettico che imprime a una coppia di Inni di argomento mariano un ritmo marcato sulla linea dell’innografia di sant’Ambrogio. Il primo, dominante elemento di questo dittico è una lamentatio Mariae, in cui — annota Lacchini — «Gabiano ricostruisce una vera e propria Via crucis sostituendo la voce degli evangelisti con quella della Madonna, secondo il modello della Lauda medievale».

Un ulteriore salto di qualità artistica fa registrare il poemetto in 768 esametri, peraltro incompiuto, De Lacrymis B. Virginis Mariae. Ne è protagonista assoluta una Madre scolpita con incisiva introspezione psicologica che, nel raccontare con toni da tragedia greca — sul filo di puntuali rimandi ai Vangeli della Passione — la crocifissione e la morte del Figlio, non indulge al manierismo del lamento rituale ma fa vibrare, potente, lo strazio del cuore e delle viscere: «Perché l’arcangelo mi chiamò la piena di grazia? / In questo modo il Signore è con me? / È questa la pienezza della grazia? A che è giovato / il mio parto indolore, se poi dovevo vivere / fino ad assistere, infelice, a questa sciagura?».

Diversi altri frutti editoriali ha saputo produrre, nell’arco di un ventennio, la feconda mariologia letteraria di Angelo Lacchini, procedendo ora sulla pista del curatore, ora su quella più soggettiva dell’autore. Dalle sue indagini sulla poesia mariana dal Duecento fino all’Ottocento e oltre, confluite in La Bibbia nella letteratura italiana (a cura di Pietro Gibellini, Morcelliana, 2009-2017), sono germogliati, in part-nership con Claudio Toscani, due esemplari florilegi: Figlia del tuo figlio. Antologia di poesie mariane dal Duecento a oggi (Artigrafiche, 2000) e Regina poetarum. Poeti per Maria nel Novecento italiano (San Paolo, 2004). Parallelamente, venivano alla luce tre costellazioni di componimenti poetici a lode e gloria della Mater Dei, ispirati a Lacchini da un fisiologico sentimento mariano, orazianamente in equilibrio tra ars e ingenium, tra ragioni dell’intelligenza e ragioni del cuore, secondo una caratteristica cifra espressiva, consistente in una compenetrazione di trascendenza e immanenza, di mistica e quotidianità, di dettato aristocratico e sobrietà colloquiale. L’imminente ricorrenza dei 510 anni dall’apparizione della Madonna a Castelleone (11 maggio 1511), sul luogo dell’attuale Santuario della Misericordia, ha infine suggerito il progetto di un unico Canzoniere mariano, fresco di stampa (Fantigrafica, marzo 2021, pagine 164, s.i.p.), dove si recupera in ordine cronologico quella trilogia assimilabile a un triplice ex-voto in memoria di tante grazie spirituali elargite da colei che il poeta canta come «l’eternamente, divinamente incinta», come la «giovane madre» non solo di Cristo ma di ognuno di noi: La mia Maria (2010), vertiginosa interpretazione sub specie poeseos delle Litanie Lauretane, è qui accompagnata dai suoi due inseparabili “corollari”, Poemetto per Maria (2014) e La Madre (2018).

Una poliedrica vocazione alla scrittura e un monolitico radicamento nell’humus del Vangelo hanno abilitato Pasquale Maffeo a rendere testimonianza, per oltre mezzo secolo, delle straordinarie potenzialità insite nel binomio fides et ratio applicato alla narrativa, alla saggistica, alla poesia e alla drammaturgia. Questa sua inesausta cristianità culturale è di recente approdata a una “ricognizione” senza rigidi confini spazio-temporali nel campo della poesia di specifica ispirazione mariana, giovandosi di un’affabile prefazione di Luigi Vari, arcivescovo di Gaeta: La Madre del Signore nella letteratura (Caramanica, 2020, pagine 160, euro 10). Più di cinquanta voci italiane e straniere, alcune illustri altre meno conosciute, compongono il coro da cui s’innalza una sorta di oratorio polifonico in onore dell’Immacolata, «che non solo / ospitò l’infinità di Dio / in impicciolita infanzia / (…) / ma è madre d’ogni nuova grazia / che ora scende sulla nostra razza» (G.M. Hopkins). La maggior parte di questi coristi s’inscrive nella fertile stagione otto-novecentesca: Leopardi, Pascoli, Rebora, Moretti, Bernanos, Claudel, Rilke, Eliot, Saba, Testori… Ma non mancano balenanti proiezioni nel Medioevo (Guittone d’Arezzo) e nel Rinascimento (Poliziano, Savonarola, Bembo e persino, con reminiscenze dantesche, l’insospettabile Lorenzo de’ Medici).

In una memorabile pagina della Evangelii nuntiandi (n. 41) Paolo vi osservò: «L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni». Quelli scelti e presentati da Maffeo sono quasi tutti dei maestri di arte poetica. Ma se oggi leggiamo i loro versi con partecipazione e profitto, è soprattutto perché li percepiamo inginocchiati, nel momento creativo, davanti alla Vergine: umili testimoni del suo amore materno e del loro amore filiale.

di Marco Beck