Hic sunt leones

Migrazioni Africane: «Siamo
tutti sulla stessa barca»

Migrants and refugees wrapped in survival foil blankets rest aboard the Topaz Responder ship run by ...
21 maggio 2021

Il tema della mobilità umana dalla sponda africana, a seguito dei recenti nuovi sbarchi sull’isola di Lampedusa, a volte preceduti da inaccettabili eventi luttuosi, ha portato nuovamente alla ribalta il dibattito sulla maggiore o minore pertinenza della politica di esternalizzazione del controllo delle frontiere europee in ambito migratorio.

Si tratta di una questione che storicamente, in Europa, si manifestò già negli anni ’90 con la fine dei regimi comunisti e il conseguente fenomeno migratorio da Oriente verso Occidente. In uno storico discorso pronunciato dinnanzi al Parlamento europeo il 29 gennaio 2004, l’allora segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, rivolse ai rappresentanti dei popoli del continente un monito sferzante: «I migranti hanno bisogno dell’Europa. Ma anche l’Europa ha bisogno dei migranti. Un’Europa chiusa sarebbe un’Europa più meschina, più povera, più debole e più vecchia. Un’Europa aperta sarà più giusta, più ricca, più forte e più giovane, purché voi sappiate gestire bene queste migrazioni».

Parole quanto mai attuali considerando che la pandemia di coronavirus ha prodotto in Italia e in Europa profonde conseguenze demografiche, con un impatto particolarmente depressivo sulla natalità. Secondo un’elaborazione curata da Giancarlo Blangiardo presidente dell’Istat, nella demografia italiana del 2020 «due sembrano essere i confini simbolici destinati a infrangersi sotto i colpi del covid-19 e dei suoi effetti, diretti e indiretti: il margine superiore dei 700 mila morti — oltre il quale nell’arco degli ultimi cent’anni ci si è spinti giusto all’inizio (1920) e quindi nel pieno dell’ultimo conflitto mondiale (1942-1944) — e il limite inferiore dei 400 mila nati, una soglia mai raggiunta negli oltre 150 anni di unità nazionale». Complessivamente, nell’ultimo decennio, il numero di nascite è calato in Italia del 20 per cento. L’età media è continuata ad aumentare, e con questa la pressione sul sistema pensionistico. È dunque necessaria una forza lavoro addizionale, soprattutto giovane con grande vitalità, sogni e ambizioni. Da questo punto di vista l’Africa ha davvero le carte in regola. Peraltro, è stato ampiamente dimostrato che i migranti, qualora fossero regolarizzati, nel lungo periodo sarebbero in grado di versare in media allo stato italiano più di quanto potrebbero ricevere in prestazioni (stime Ocse). Al netto di queste esigenze, resta comunque il fatto che le pressioni migratorie verso l’Europa, e in particolare verso l’Italia, sono destinate a crescere ed impongono un serio discernimento. Basti pensare al fatto che nel 1990 la popolazione dell’Africa era di circa 630 milioni, mentre oggi è di oltre 1,3 miliardi e, se la tendenza demografica non cambierà in maniera significativa nei prossimi anni, entro il 2050 sarà di 2,4 miliardi. A metà del secolo la popolazione mondiale vivrà per il 25 per cento in Africa (era il 13 per cento nel 1995 e il 16 per cento nel 2015) e solo per il 5 per cento in Europa.

Le stime degli esperti indicano anche che in Africa si registrerà un graduale e costante aumento della popolazione in età lavorativa. Nel frattempo, si ridurranno le fasce passive, sia quella troppo giovane, che quella troppo anziana, per essere considerate produttive. Un destino opposto a quello dei Paesi occidentali, che saranno abitati da una popolazione sempre più anziana. Lo si evince dal cosiddetto dependence index, un indicatore che misura la percentuale delle persone di età inferiore ai 15 anni e superiore ai 64, rispetto alla fascia mediana, quella cioè lavorativa. Ebbene, secondo i dati forniti dalla Population Division delle Nazioni Unite, nel 2010, il continente con il dependence index più alto era proprio l’Africa, con 80 persone in età non attiva (in gran parte minori) su 100 in età lavorativa. Di converso, l’Europa in quell’anno vantava un indice del 47 per cento. L’Onu, però, prevede un ribaltamento in poco meno di un secolo. L’Africa diventerà così il continente per eccellenza della produttività, con un indice del 56 per cento contro l’82 per cento del Sud America e l’80 per cento del Vecchio Continente.

Da rilevare, inoltre, che la prospettiva europea legata, almeno in parte, alla necessità di plasmare il dibattito politico e conseguentemente l’opinione pubblica sulla perniciosità del fenomeno migratorio, trascura il fatto che i processi migratori dell’Africa, soprattutto quelli dell’area subsahariana, sono principalmente fenomeni «intra-regionali». Come rileva Giovanni Carbone (Head, Ispi Africa Programme), «dei 27 milioni di emigrati che, al 2017, originavano dall’Africa subsahariana (pari a tre quarti di tutti i migranti africani, inclusi quelli provenienti dal nord Africa, e al 10,5 per cento dei 258 milioni di migranti presenti a livello globale), solo una minoranza di 8 milioni di persone, lasciata la propria terra, si era stabilita in Europa, Nord America, Medio Oriente o in un’altra regione del globo».

Si può concludere affermando, dunque, che la maggioranza dei flussi migratori africani si sviluppa all’interno del continente africano, mentre solo una minoranza è diretta verso l’Europa. È evidente che l’Africa è, e continuerà ad essere, attraversata da rapidi, persistenti e radicali cambiamenti per una molteplicità di ragioni a cui finora abbiamo solo accennato: non solo la pressione demografica che porta alcuni Paesi ai limiti della sostenibilità, ma anche lo sfruttamento e la competizione sul controllo delle terre, il cosiddetto land grabbing, nonché i processi di urbanizzazione che acuiscono a dismisura l’esclusione sociale. Per non parlare degli effetti dei cambiamenti climatici, inclusa la desertificazione e il moltiplicarsi di fenomeni atmosferici estremi; o della persistente o rinnovata conflittualità di alcune zone del continente: dal Burkina Faso, al Mozambico Settentrionale; dalla Nigeria Settentrionale alla Repubblica Centrafricana; dal settore orientale della Repubblica Democratica del Congo alla Somalia. E cosa dire della recessione economica in atto a livello continentale, la prima in 25 anni, scatenata a seguito della pandemia di covid-19?

Bisogna poi considerare che le necessità sanitarie di base sono ancora negate a milioni di africani: si calcola, ad esempio, che solo il 58 per cento della popolazione che vive nell’Africa subsahariana abbia accesso a forniture d’acqua sicura. Inoltre, questo continente detiene anche il triste primato mondiale di mortalità neonatale. È evidente che siamo di fronte ad un circolo vizioso perché non è possibile parlare di sanità e di copertura sanitaria universale in Africa senza tenere conto dei determinanti sociali della salute come il reddito, l’istruzione, l’alimentazione, l’abitazione, il lavoro; molto spesso diritti negati. È solo un elenco parziale di questioni che molti governi del continente si trovano simultaneamente ad affrontare, ciascuna di esse destinata a ripercuotersi a sua volta sull’evoluzione della mobilità umana. Gioverebbe pertanto a tutti basarsi su informazioni precise e circostanziate rispetto ad uno scenario geopolitico, quello africano, che solitamente viene trascurato dall’informazione main stream. Ciò costituirebbe la garanzia di un dialogo più sereno non solo con i partner africani, ma anche all’interno della Ue.

Infatti, se si vuole controllare le frontiere, è necessario che i decisori politici si rendano conto del fatto che esse non si limitano allo spazio Schengen, né al Mediterraneo (ridotto oggi ad una sorta di «cimitero liquido») ma inglobano un perimetro di interessi (basti pensare all’attività estrattiva delle commodity africane) che circoscrive l’intero continente africano. Siamo, infatti, di fronte ad uno spazio assai ampio, che coinvolge un numero crescente di persone le cui preoccupazioni quotidiane sono ben lungi da qualsiasi aspirazione a diventare migranti clandestini intenzionati ad andare in Europa.

D’altronde, l’aumento dei flussi irregolari è anche conseguenza del fatto che non esistano alternative concrete per poter migrare regolarmente dall’Africa verso il Vecchio continente. Spesso, in ambito politico, si parla della necessità di intensificare le politiche di aiuto allo sviluppo in Africa, al fine di limitare numericamente l’immigrazione, compensando i danni causati da un maggiore controllo della circolazione. Un tale ragionamento omette di considerare la capacità e soprattutto il diritto delle popolazioni afro di trovare la strada verso il proprio sviluppo. Un’istanza, questa, che si fonda in gran parte sulla circolazione delle persone. Non tenerne conto significa pregiudicare l’efficacia delle politiche migratorie nel quadro euro-mediterraneo. Per dirla con le parole di Papa Francesco nel suo recente Messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante del Rifugiato: «In realtà, siamo tutti sulla stessa barca e siamo chiamati a impegnarci perché non ci siano più muri che ci separano, non ci siano più gli altri, ma solo un noi, grande come l’intera umanità».

di Giulio Albanese