Quattro pagine - Approfondimenti di cultura, società, scienze e arte
A colloquio con Giovanni Solimine

Una vita di libri

Hendrik Jan van Amerom (1786-1833) «Uomo che legge»
18 maggio 2021

Una misura fatta di pacatezza di modi e garbo di voce illuminata da un fiorire di idee che hanno i toni accesi delle cose amate. Studioso di rango, saggista di grande intensità e limpidezza, insegnante per vocazione, Giovanni Solimine possiede uno sguardo dove convivono in straordinaria armonia ragione e sentimenti, rigore e passioni, sogni e concretezza. Una lettura del mondo, la sua, che si rivela per lampi di intuizione ma poi si fa metodo che scende in profondità e si spinge alla ricerca di relazioni, somiglianze, analogie. Un percorso ricchissimo che nasce dalla curiosità intellettuale, con naturalezza va oltre i tecnicismi della professione e gli steccati fra le discipline e spesso approda a definizioni che non sono mai semplificazioni di pensiero, ma una felice sintesi che racchiude un’idea rigorosamente costruita, come la perla una conchiglia. Docente di Biblioteconomia, conosce bene l’arte di conservare, proteggere e trasmettere il passato, ma è capace di guardare in modo costruttivo e sereno al futuro. La cultura per lui non è aristocratica separatezza, ma strumento condiviso di civiltà: l’ignoranza di uno non penalizza solo l’individuo ma la comunità, così come la conoscenza del singolo deve essere al servizio di tutti. Al centro della sua costellazione il libro, ma intorno l’idea forte del sapere inteso come bene comune, impegno civile, contributo e partecipazione alla vita collettiva.

Il primo ricordo della tua vita?

Non saprei dire quale sia il primo, ma il ricordo più vivo è quello del primo giorno di scuola. Era una giornata piovosa di ottobre e con mia madre avevamo trovato riparo in un portone di fronte alla scuola, la Leopardi di Fuorigrotta. Non avendo io frequentato la materna, allora spesso si cresceva a casa, ero un po’ disorientato dalla novità di un mondo che per me era tutto da scoprire. La maestra Elena Di Martino, il grembiule nero ingentilito dal sorriso accogliente, mi conciliò subito con l’ambiente. Rimasi molto legato a lei e continuai a sentirla e vederla per molto tempo. Ricordo che per la mia Prima Comunione, non era più la mia maestra perché nel frattempo era andata in pensione, mi regalò un libro, Le meraviglie del mare, che conservo ancora.

Chi ha contato di più nella tua formazione?

Nei primi anni naturalmente i miei genitori e più in generale l’ambiente familiare. Ero destinato a diventare medico perché trascorsi infanzia e adolescenza nell’ombra dell’esempio di uno zio medico, al quale ero legatissimo. Arrivato alle superiori un professore di Storia e Filosofia mi fece scoprire altre strade, altri interessi che determinarono la scelta dei miei studi universitari. Ho fatto poi tanti incontri importanti, ma quello che più felicemente mi ha influenzato e mi ha fatto diventare quello che sono ora è stato l’incontro con Tullio De Mauro, un vero intellettuale civile, che mi ha insegnato ad andare oltre gli specialismi e, proprio a partire da quelli, cercare di ampliare l’orizzonte, sviluppando una visione complessiva del rapporto tra individui, conoscenza e società. Mi fece capire che per coltivare al massimo livello gli interessi di studio occorre andare fuori dal perimetro della loro competenza.

Gli incontri dunque sono stati una voce importante nella tua vita?

Sì, tanto sul piano privato, l’incontro con mia moglie, compagna di tutta la vita con cui abbiamo costruito una famiglia vera, con due figlie di cui vado orgoglioso per i valori che le animano, che su quello degli studi e delle scelte professionali. Ho una convinzione al riguardo. Gli incontri positivi sembrano sempre inattesi, una svolta che arriva dal nulla, una sorpresa piacevole e fortunata. Non credo sia così. Quando sentiamo l’incompletezza della vita che stiamo vivendo e avvertiamo l’esigenza di andare avanti, di modificare qualcosa, ecco che in quel momento siamo pronti ad accogliere chi ci aiuterà a realizzare un cambiamento che non avrebbe la forza di schiudersi da solo. L’incontro è certamente un’occasione felice che offre la vita, ma riconoscerlo sta alla nostra disponibilità di accoglienza.

Oltre le persone, che cosa ha contato di più nella tua formazione?

Appartengo a una generazione dell’impegno che si manifestava con un forte senso di appartenenza e di partecipazione, con il sentirsi dentro alla vita pubblica. Tutto quello che accadeva intorno a noi ci toccava direttamente. Ho mantenuto sempre, sia pure in forme diverse, questo atteggiamento di inclusione e mi dispiace oggi vedere la lontananza delle giovani generazioni dalla vita pubblica. Come tanti miei coetanei ho cercato da solo interessi e passioni negli ambienti formativi, la scuola e l’università; la lettura è stata certamente uno strumento preferenziale di crescita, anche se non il solo e la scelta dei libri ha seguito le inclinazioni nelle varie fasi della vita. Dalle letture infantili — Il soldatino di stagno, I Ragazzi della via Pál, Dagli Appennini alle Ande per citare quelli che più mi sono restati nel cuore — alla saggistica che predilessi da adolescente insieme a una memorialistica con forte riferimento civile. Una scelta di vita e Un’isola di Giorgio Amendola e Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi furono letture fondative per un ragazzo come ero io, impegnato sul fronte politico e che ricercava nei libri le sue passioni. Anche il cinema è stato importante, non tanto come intrattenimento quanto come strumento di crescita. Ricordo quelle piccole sale invase dal fumo dove negli anni Settanta si poteva vedere di tutto, anche pellicole coreane o cilene sottotitolate.

Raccontaci il tuo universo libro oggi.

Leggo e non solo per professione ma per passione. Amo i classici, quegli autori che continuano a parlare sempre perché ti mettono di fronte a un messaggio assoluto, I promessi sposi e Il Gattopardo solo per fare due esempi. Continuo a prediligere i libri vicini alle mie esperienze di vita o quelli ambientati nelle città che ho visitato e che amo: Lisbona di Sostiene Pereira, Praga di Praga magica, Napoli di Ferito a morte. Sono anche un lettore seriale, quando scopro un autore voglio leggere tutto e mi piace attraversare generi diversi. Come afferma Sartre, il testo letterario è «una strana trottola che esiste quando è in movimento. Per farla nascere occorre un atto concreto che si chiama lettura, e dura quanto la lettura può durare. Al di fuori di questo, rimangono solamente i segni neri sulla carta». Questo significa che lo scrittore fa metà del lavoro e l’altra metà lo fa il lettore. Leggendo cerchiamo di trovare le nostre emozioni e le nostre esperienze, per questo qualche volta facciamo dire agli scrittori cose che magari non volevano dire. È bello anche rileggere, leggere con occhi nuovi. Ogni libro, alle riletture, può rivelare qualcosa di diverso perché nel frattempo a essere cambiati siamo noi. Questo è certamente una ricchezza, ma rileggere significa anche accettare il rischio della delusione. Infine, non amo i libri artificiosi, quelli scritti a tavolino, quelli dei giovani autori che hanno frequentato le scuole di scrittura, i libri che nascono dal mestiere più che dal talento.

Parlaci dei tuoi luoghi del cuore.

Amo viaggiare e preparo ogni viaggio leggendo. Questo mi permette di arrivare in luoghi sconosciuti avvertendo fin da subito un senso di familiarità tanto che a volte, insieme al rammarico per non esserci stato prima, comincio a provare nostalgia ancora prima di andarmene. Cerco di viaggiare non da turista, perché vivere la vita quotidiana dei luoghi, sia pure in formato ridotto, ti aiuta a capire mondi, persone, culture. Lisbona, Praga, Parigi, ma anche la Patagonia e tutta l’America latina, Barcellona e l’Andalusia, il Taj Mahal, l’Acropoli di Atene sono tutti luoghi del cuore. E poi mi piace andare a mangiare nei ristoranti frequentati dagli scrittori, penso al Caffè Tortoni di Buenos Aires prediletto da Borges o al Caffè Letterario di San Pietroburgo sulla Prospettiva Nevskij legato al ricordo di Puškin.

Una delle tue felici definizioni è «cultura orizzontale» che indica le pratiche culturali in rete, una vera rivoluzione nell’accesso al sapere.

Il consumo culturale in rete significa una grande quantità di contenuti disponibili (materiale digitale nativo e attività culturali migrate verso la rete) un accesso sconfinato a un’enorme quantità di nozioni, la simultaneità del flusso comunicativo, l’integrazione tra codici comunicativi diversi (leggere, vedere, ascoltare). Per secoli la conoscenza si è trasmessa in modo organizzato e mediato dalla competenza e dall’autorevolezza, cioè in modalità verticale. Oggi le figure tradizionali di mediazione — insegnanti, critici, giornalisti, editori, bibliotecari, librai — si sono indebolite e alla dimensione verticale si è sostituita una dimensione orizzontale. Questo non significa che viviamo nell’epoca della disintermediazione, tutt’altro, siamo solo di fronte a un mediatore diverso, antigerarchico e dal potenziale vastissimo. La rete può darci l’illusione di essere attori anche quando, pur avendo abbattuto le gerarchie, continuiamo a essere spettatori.

Un’invenzione nell’invenzione è stata internet mobile. Basta avere un cellulare in tasca ed è possibile connettersi in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento. Mi viene alla mente Aldo Manuzio, il geniale editore che alla fine del Quattrocento inventò il libro di piccolo formato che si poteva tenere in tasca e portare con sé, a differenza dei libri di grande formato che richiedevano lo scrittoio o i palchetti delle biblioteche.

Una delle novità che nel corso del decennio passato ha avuto maggiore impatto nella nostra vita è stata certamente la connessione mobile, che ha modificato le abitudini e ha finito per cambiare la percezione dello spazio e del tempo. Prima dovevamo sederci a tavolino e accendere il computer e la vita era scandita da ritmi precisi: dentro e fuori cioè casa/ lavoro/strada. Oggi uno smartphone in tasca significa avere la rete che ci raggiunge, essere sempre connessi perché il wi-fi è ovunque, nell’aria che respiriamo. Insomma, la rete non è più uno strumento ma è il nostro ambiente.

Nel tuo importante saggio «Senza sapere. Il costo dell’ignoranza in Italia» ribalti la prospettiva abituale e racconti di «un’Italia senza sapere» dove una politica della conoscenza, cioè investimenti in istruzione e ricerca, costerebbe meno di quanto non costi l’ignoranza.

Siamo un Paese di basso livello di istruzione, con ritardi infrastrutturali, povertà educativa e crescenti disuguaglianze che continua a non avere una politica della conoscenza, fondamentale per la crescita dell’intera comunità nazionale. Ricordiamoci, solo per sottolineare un aspetto, che nei Paesi dove i livelli culturali sono più alti ci sono meno corruzione e maggiore rispetto per i diritti delle minoranze. Sui limiti, o meglio, sull’assenza di una politica per la conoscenza in Italia sono intervenute personalità che autorevolmente hanno fatto sentire la loro voce. Vorrei citare le parole del governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco: «Un Paese come l’Italia, povero di risorse materiali e in ritardo su molti fronti non solo economici, dovrebbe mirare a investire nella scuola e nella conoscenza non “sotto” o “sulla”, ma “al di sopra” della media degli altri Paesi».

Per contrastare la povertà culturale degli adulti, una condizione molto diffusa nel nostro Paese, e offrire formazione e aggiornamento, requisiti necessari per esercitare il diritto a una cittadinanza consapevole, suggerisci di assegnare un ruolo importante alle biblioteche.

Nel nostro Paese manca una formazione permanente per la popolazione adulta che è uscita dal circuito scolastico. Per colmare questa carenza, che è elemento di grande debolezza, le biblioteche territoriali di base, spesso unico presidio culturale nei centri minori, possono svolgere una funzione importante. Per far questo devono arrivare a tutti ed esercitare un’attrazione. La biblioteca non deve essere percepita solo come spazio finalizzato alla lettura e allo studio, ma come luogo di relazione e di condivisione in grado di fornire conoscenze e competenze. Questo significa innanzitutto recuperare un senso di prossimità — la biblioteca come luogo familiare all’orizzonte della vita quotidiana — quindi offrire servizi bibliotecari e multimediali, sedi moderne e accessibili realizzate in luoghi strategici e ampi orari di apertura per tutti i giorni della settimana. Biblioteche come “magazzini delle idee”, luoghi di riferimento e di aggregazione per una esperienza culturale e comunitaria.

Si avvicina la data della tua lezione di congedo…

Ci penso da tempo perché i riti di passaggio hanno la loro importanza, non possono essere banalizzati, ma non vanno neppure enfatizzati eccessivamente. Vanno vissuti con sobrietà, anche se non nascondo di provare una certa emozione quando penso al 28 maggio, che sarà l’ultima data di una attività didattica non breve. Credo che dirò qualcosa sui nodi tematici attorno ai quali si è sviluppato il mio percorso di docente: il libro, la biblioteca, l’accesso alla conoscenza. E come si addice a una lezione conclusiva, cercherò di ricavare il senso di ciò che si è andato dicendo nelle lezioni precedenti.

Un rimpianto?

Non so ascoltare la musica né leggere la poesia. Note e versi mi danno emozioni certo, ma per andare in profondità occorre altro, avere una formazione.

Una nostalgia?

Napoli. Sono irpino di nascita ma napoletano di formazione perché ho vissuto a Napoli fino ai quarant’anni quando mi sono trasferito a Roma. Lasciavo una città dove vivere era fatica di vivere per una capitale che, come tutte le capitali, era aperta, tollerante, accogliente. Mia moglie, napoletana purosangue, ha da subito sofferto la lontananza. La nostra tavola è sempre stata rigorosamente napoletana, dai primi piatti al dolce, compreso il “palatone”, un pane meraviglioso. Questo perché il cibo è casa. Quando ero giovane mi infastidiva “il napoletano di mestiere” con tutto il corredo di modi di essere e di fare, anche se ho sempre avuto la consapevolezza che la città aveva condizionato il mio modo di vedere la vita. Non prendersi troppo sul serio, ad esempio, o quel leggero disincanto che non si spinge al fatalismo ma si traduce nel non essere mai categorici e assertivi. Con l’età mi sono sempre più ripiegato su Napoli. Amo il presepe e Totò da sempre, ma oggi più che in passato mi capita di ripetere espressioni dialettali, guardo con passione le partite del Napoli e provo nostalgia. Un sentimento struggente, tra malinconia e desiderio, qualcosa di simile alla saudade brasiliana.

Un progetto?

Da un po’ di tempo ho cominciato ad accumulare sulla mensola del caminetto i libri che mi propongo di leggere. Saranno i miei “compagni perfetti” per i prossimi anni. Del resto ho fatto mie le parole di Umberto Eco: «Il libro è come il cucchiaio, il martello, la ruota, le forbici; una volta che li avete inventati, non potete fare di meglio».

di Francesca Romana de’ Angelis


Giovanni Solimine insegna 
Biblioteconomia e Editoria all’Università di Roma La Sapienza. È presidente della Fondazione Bellonci, organizzatrice del Premio Strega, e presidente onorario del Forum del libro. Tra i primi in Italia a dedicare studi al management delle biblioteche e all’applicazione delle tecnologie dell’informazione, ha collaborato con architetti di fama internazionale per la progettazione di nuove biblioteche; più di recente si è interessato alla circolazione della conoscenza in rete e rapporto fra lettura e altri consumi culturali. È autore del blog La conoscenza rende liberi; i suoi volumi più recenti, pubblicati da Laterza, sono L’Italia che legge (2010), Senza sapere: il costo dell’ignoranza in Italia (2014), La cultura orizzontale (2020, con Giorgio Zanchini).