Pubblicate le recensioni ai Salons parigini

Un Diderot che guarda oltre

Denis Diderot ritratto da Louis-Michel van Loo (1767)
18 maggio 2021

«Incatenati nelle strette cinte di città da occupazioni noiose e tristi doveri, se non possiamo tornare nelle foreste, nostro primo asilo, sacrifichiamo una porzione della nostra opulenza per richiamare le foreste intorno alle nostre dimore. Ma lì hanno perso per la simmetrica mano dell’arte il silenzio, l’innocenza, la libertà, la maestà, il riposo». Siamo nel 1767, Denis Diderot sta riflettendo su un quadro di Vernet, uno degli artisti da lui prediletti, presente al Salon di quell’anno, e come spesso usa fare, parte con la fantasia, associa l’opera alla sua ispiratrice, la natura, cade un po’ nel ricordo e un po’ nell’inventio. E, senza (forse) saperlo, diventa moderno, nel senso non tanto del gusto pittorico, ma nell’intuizione della forza, fisica e immaginativa, della natura, che troveremo ben oltre il secolo dei lumi.

Oggi è possibile leggere le considerazioni di uno dei maestri dell’Illuminismo su queste esposizioni parigine, che avevano cadenza biennale, organizzate nel Salon Carré del Louvre a partire dal 1759, raccolte nel recente Denis Diderot. I Salons a cura di Maddalena Mazzocut-Mis e Massimo Modica (Firenze, Bompiani 2021, pagine 1984, euro 70).

Non si tratta di vere e proprie recensioni, ma di una sorta di corrispondenza “privata” scritta a mano per la Corrispondance littéraire, philosophique et critique che arrivava soprattutto ad aristocratici e intellettuali fuori dai confini francesi. Perché erano tempi non sempre facili in patria per quei pensatori come Voltaire, Rousseau, D’Alambert e ovviamente Diderot, non in linea con la religione ufficiale — e le sue gerarchie — e con una parte dell’intellighentia che oziava sotto l’egida monarchica. A fianco di anticipazioni di una sensibilità per la natura che sarà propria di ristrette avanguardie, soprattutto nel preromanticismo, e che poi allargherà i propri confini a partire dagli anni Settanta del Novecento, ci sono notazioni contraddittorie, qualche confusione tra artisti (giustificata dal fatto che non esisteva la fotografia e quindi la memoria era assistita solo da disegni e bozzetti) e variazioni sul tema religioso, che vanno dai consueti attacchi alla Chiesa e al clero a ironie di cattivo gusto su santi e dogmi.

Un’ironia che ogni tanto è attraversata però da guizzi di autentica profondità, soprattutto quando si trova di fronte agli artisti da lui preferiti: Chardin, Greuze, La Tour, e ha l’opportunità di riandare alla magia naturalistica di Poussin e Lorrain: modelli per lui in cui il paesaggio e la storia si fondono in una dinamica sempre pronta a rilevare le tracce di quel divino che Diderot sembra cogliere nella grande madre. Un divino che talvolta è in linea con il sensismo panteistico, altre volte con un monismo dinamico, talora con una finestra aperta su altre possibilità di ipotesi sul mistero della vita. E talvolta l’illuminista con venature un po’ deiste e un po’ materialistiche, che attinge alla letteratura libertina e amorale, si trova dalla parte opposta della barricata, come quando difende la moralità dell’arte finanche contro il genio che, ne sembrava prima convinto lui stesso, è destinato a sconfinare oltre: oltre la morale, oltre i limiti del tempo, le norme della pòlis settecentesca.

Se poi mettiamo i suoi “reportage” dei Salons (fino a quello del 1781) a confronto con gli scritti sull’arte (preceduti da un bel saggio di Massimo Modica) e i frammenti dei suoi Pensieri sparsi, vediamo che la tensione della mente nello sforzo di memorizzare, la scrittura a mano, le riflessioni improvvise e vagabonde ci permettono di assaporare l’autenticità immediata dell’intellettuale. E dell’uomo.

Dicevamo della difesa, talvolta, della morale contro la licenza: la sua antipatia per Boucher, e l’altalena nel giudizio della stesso Fragonard, che pure di natura e rovine, predilette dal philosophe se ne intendeva parecchio, provengono proprio dalla presenza nella loro produzione di un filone voyeur, la cui denuncia a volte neanche troppo implicita sorprende in un intellettuale che aveva fatto i conti con la coinè libertina, quella stessa che aveva ipocritamente trovato accoglienza tra i cortigiani.

Ma questa oscillazione tra moralismo e liberazione dall’etica imperante, tra amore per i classici — Leonardo, Raffaello, i Carracci, i già citati Poussin e Lorrain e altri — e ansia di un’arte nuova che trovi diversi modi di “dire” e dipingere la natura e la storia, rendono umano un pensatore che altrimenti resterebbe intrappolato nella gabbia degli ismi scolastici del tipo ragione contro sentimento, mentre a leggere questi scritti ci si rende conto della realtà della cultura: uno scorrere inesausto, un cambiamento continuo, come intuiranno quasi un secolo e mezzo dopo Bergson e Pirandello, nella medesima persona, attimo dopo attimo.

Le contraddizioni, le aporie, gli inciampi, le simpatie e le repulsioni personali ci rendono un Diderot meno intellettuale spocchioso e iper-raziocinante, in grado di andare oltre il suo stesso tempo e di intuire dinamiche che saranno proprie del primo romanticismo anglosassone: le rovine, il richiamo della terra, l’horror vacui e alcune dinamiche pittoriche, soprattutto nell’uso dei cromatismi, che secondo alcuni, qui citati, precedono impressionismo e cubismo. Un incontro con la realtà umana di un intellettuale, immerso nel suo tempo, nelle sue fisime, nelle sue naturali contraddizioni, e con la sua capacità di andare anche oltre.

di Marco Testi