«Alabama» di Alessandro Barbero

Profetizzare sul passato

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18 maggio 2021

La storia è un genere letterario? La questione si è posta qualche decennio orsono, a seguito del sostanziale fallimento del programma positivista sintetizzato nella formula di Leopold von Ranke «raccontare le cose come andarono veramente», progetto già sostenuto da Tucidide alle origini dell’indagine sullo svolgersi delle azioni umane e mai realizzato. Un secolo e più di sforzi recenti non è riuscito a venire a capo della pluralità di interpretazioni che ogni vicenda umana porta con sé. Persino l’individuazione tematica di un avvenimento, la sua estrazione dal continuum dell’accadere, la sua definizione e la scansione temporale nella quale inserirlo si rivelano a volte impossibili. Classico al riguardo fu il tentativo di conciliare la storia degli ebrei con quella dei palestinesi, per scoprire che Israele per i primi costituiva la realizzazione della promessa fatta da Dio ad Abramo e alla sua discendenza mentre per i secondi rappresentava un passaggio tardivo della stagione di colonizzazione del mondo da parte degli europei. Ogni ricerca storica paga un prezzo altissimo alla volatilità delle fonti, alla pluralità delle interpretazioni possibili, alla complessità dei rapporti che la devono collegare al contesto nel quale si colloca, al peso a volte inconsapevole che le ideologie e le tradizioni impongono anche al più accorto e imparziale degli studiosi.

Ugualmente il passato ci chiede sempre di essere conosciuto, dato che costituisce la nostra memoria collettiva: è il luogo dello scontro e quello dell’incontro, l’ambito nel quale i contrasti e le opposizioni devono trovare una sistemazione, se non un pieno superamento, per giungere a una convivenza tra i popoli. Il compito dello storico si avvicina allora a quello del profeta. Epimenide il Cretese, al quale si attribuisce l’ideazione del paradosso costituito dalla dichiarazione «tutti i cretesi mentono» proposta da un cretese, è considerato il primo storico, e di lui i contemporanei dicevano che profetizzava sul passato. Perché allo studioso del tempo trascorso non si chiede solo di riferire gli avvenimenti, i pensieri, gli umori, le fissazioni, la cultura, i sentimenti di donne e uomini che non ci sono più. Ciò che lui sa è meno importante di quanto è capace di comunicare, dato che la sua funzione è sociale: renderci consapevoli della legittimità delle differenze, della complessità e relatività del complesso culturale nel quale siamo cresciuti e rimaniamo immersi nel corso di tutta la vita. Lo storico è colui che ci sa presentare il passato come un mondo altro, dal quale discendiamo, ma col quale dobbiamo mantenere la consapevolezza dei legami che abbiamo. Allora comprendere non significa giustificare, mentre l’attitudine del giudicare deve essere impiegato con la massima circospezione.

Questa lunga premessa per occuparci di un’opera letteraria di carattere storico il cui valore consiste anche nella capacità di descrivere una società scomparsa, sconfitta militarmente e culturalmente, spiegandone non le ragioni ma gli elementi di coerenza, l’impasto culturale, l’estetica, l’auto rappresentazione.

Alabama (Palermo, Sellerio, 2021, pagine 272, euro 15) è un romanzo nel quale Alessandro Barbero, già vincitore nel 1996 del premio Strega con Bella vita e guerre altrui di Mister Pyle, gentiluomo che racconta la vittoria di Napoleone ai Jena nel 1806, costruito come il lunghissimo monologo di un reduce, ormai centenario, che rievoca per una giovane studentessa un episodio particolarmente crudele della Guerra Civile americana del quale è stato protagonista. L’evento viene ricostruito nel lungo antefatto e poi nei dettagli; la partecipazione a esso è ammessa senza esitazioni, ma neppure sensi di colpa.

Tutto il racconto, che respira di un’attenta lettura dell’opera di William Faulkner, ha un aspetto minimalista: è fatto di particolari, episodi minori, tic linguistici, ricordi accennati. Dall’insieme emerge chiara la descrizione di una società certa dei propri valori e decisa a difenderli con tutte le forze. Il protagonista presenta in una trasparenza inconsapevole, con ostinazione e senza infingimenti, le ragioni e le colpe del mondo nel quale ha vissuto e che ha difeso armi alla mano. L’attaccamento alla terra, le abitudini frugali, il rispetto reciproco si mescolano con il razzismo e gli orrori della organizzazione schiavista, ai quali si sommano quelli della guerra. Il peccato radicale di una cultura e di un’economia fondate sulla negazione della pari dignità degli uomini di colore, fino a considerare il termine abolizionista un insulto, emerge per contrasto nella descrizione di una guerra difensiva, combattuta da uomini liberi contro soldati arruolati nei bassifondi delle città del nord, fra gli strati inferiori della popolazione, pronti alla violenza e al saccheggio.

Barbero è capace di raccontare, e spiegare, la Guerra Civile americana conservando un tono lieve, mai forzato, persino leggermente ironico. A pagina 215 lo schiavo Ben viene interrogato dal suo proprietario, il capitano Holmes. «Tu quanto vali?, e Ben rispose, io? Io vale cinquecento dollari!, e il capitano Holmes disse, e io allora quanto valgo?, e Ben alzò le spalle e disse, oh Signore, padron Frank, tu è bianco, tu non vale mica niente!».

di Sergio Valzania