«Patris corde»

Essere padri
nel confessionale

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18 maggio 2021

L’esperienza della vera libertà vissuta nel Sacramento della Riconciliazione


Ci è naturale pensare che quanto è “fatto da Dio” funzioni, non fallisca mai. Nella vita, infatti, interpretiamo incomprensioni, battute d’arresto, opposizioni come il segno di nostre o altrui insufficienze. I conti, così, non tornano. «Perché, Signore, ci lasci vagare lontano dalle tue vie e lasci indurire il nostro cuore, così che non ti tema?» (Is 63, 17): la domanda cui dà voce il profeta descrive un inspiegabile spazio di libertà, una distanza voluta, in cui Dio consente ai suoi figli di vagare, piuttosto che spremerne la fedeltà. Il grido si fa paradossale: «Dove sono il tuo zelo e la tua potenza, il fremito delle tue viscere e la tua misericordia? Non forzarti all’insensibilità, perché tu sei nostro padre» (Is 63, 15-16). La misericordia divina non ha dunque le caratteristiche del nostro zelo. Ne è prova il fatto che i motivati, i convinti di ogni fede fremono spesso di fronte alla lentezza dei cuori umani. E invece le Scritture creano un’atmosfera in cui la complessità delle persone e della realtà è accolta. In esse luce e tenebre, resistenza e resa, slanci e ritrosie, fedeltà e peccato sono raggiunti, scossi, mai però strattonati dalla grazia. Immensa la fiducia, libero l’esito.

Se così è Dio, la nostra Chiesa gli somiglia? Confessiamo infatti di essere la sua Chiesa, quella di Colui «dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome» (Ef 3, 15). Si può tradurre anche: dal quale «ogni famiglia» prende nome. Prendere il nome significa evidentemente partecipare di un’identità. A questo livello è necessario attraversare e interpretare la crisi di identità che l’istituzione attraversa, specie là dove la sua credibilità è compromessa. Oggi lo è particolarmente in quel ministero che le è più proprio: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati» (Gv 20, 21-22). Là, cioè, dove in gioco è precisamente lo spazio che Dio fa all’errare dei suoi figli, preferendone le contraddizioni alla sudditanza. Il sacramento della libertà: così andrebbe chiamato ciò che si celebra nella penitenza. È vero che ogni azione della grazia ci libera — così nel Battesimo, nell’Eucaristia e nell’efficacia di molti altri segni — eppure la concentrazione di delicatezza, riservatezza, travaglio personale, accompagnamento che si danno nella forma post-tridentina della confessione individuale introduce nella comunità lo spazio e il tempo di ciascuno. E così il diritto che Dio riconosce a non percorrere una via già tracciata, il dovere di ospitare tutti e tutto. C’è una crisi di identità, nella Chiesa, che corrisponde al tracollo di modi d’essere che non hanno alcuna fondazione divina. Portano piuttosto il segno della volontà umana di controllo e di dominio, quella che già all’interno di una famiglia vorrebbe sentire l’altro posseduto, risparmiare ai figli ogni caduta, vedere realizzati in loro i propri sogni. Nulla è infatti più inquietante — sin dal livello domestico — della non piena trasparenza che rappresenta il mistero, il resto, il non prendibile di chi amiamo. E di noi stessi. La confessione individuale non è stata solo, ma anche, un dispositivo di dominio e di controllo. Nella linea del Grande Inquisitore, che trova insostenibile dagli umani la libertà, ha lavorato a disinnescarne la vertigine. Ha sollevato molti, ma mettendo in circolo qualcosa di più pericoloso della stessa peccabilità dei suoi ministri: una rappresentazione di casa mai abbandonata, di buona strada, di pulizia fatta, di dovere ottemperato, che rinvia dritto alla parabola dei due figli (Lc 15). Il dramma del padre è l’aver perso il maggiore più del prodigo. La Chiesa è scossa oggi più che mai dalla tensione fra i due fratelli e sente in sé gridare le accuse del maggiore, proprio mentre la vicenda di chi ha sbattuto la porta di casa la attanaglia. Ogni padre, infatti, freme per il destino del figlio, ma se è padre non lo insegue. Si interroga, si strugge, attende. Ma chi è quel padre per chi non ha mai lasciato la casa?

«Padre»: ancora, preti e vescovi, possiamo venire salutati così. Di quale paternità si tratta? Quella da cui ogni figlio è chiamato a emanciparsi — uccidere il padre — o quella di cui dovremmo prendere il nome (cfr. Ef 3)? Siamo caduti in disgrazia, rifuggiti, sospetti per colpe non solo nostre. Non vogliamo per ciò stesso ridurci all’infecondità, naturalmente. Chi possiamo essere? Gesù, stando ai vangeli, aveva messo le mani avanti con un’indicazione piuttosto disattesa: «Non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste. E non fatevi chiamare “guide”, perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo» (Mt 23, 9-10). E se fosse il momento di obbedire sine glossa? Non per abdicare, ma nel riconoscimento del binario morto su cui la corsa di un modello umano, troppo umano, si è arrestata. Societas perfecta lo saremo in cielo e quaggiù restiamo Ecclesia semper reformanda, cioè tutti discepoli, anche nel prenderci cura l’uno dell’altro e nell’amministrare la grazia e la misericordia. Quaggiù è Dio che ci dà tempo e che ci fa spazio. E noi ci convertiamo difficilmente alla sua pazienza, che è condizione di quel portare frutto che significa venire a maturità, trovare la via di una pienezza che se non vediamo in noi, vorremmo impedire all’altro. Esiste un’aura di perfezione intrisa di risentimento. Da questa maschera di santità la “cristianità” è in fuga: di essa il popolo di Dio diffida, a rischio di vagare come pecore senza pastore. Il Pastore però c’è ed è uno solo. A noi, che ci lasciamo chiamare pastori, domanda una svolta che passa dall’appartenenza al gregge. Molte pecore se ne sono andate: noi dove siamo veramente?

Ci sono paralisi del cuore, del pensiero, della parola, del lavoro, della gestualità, della tenerezza, che traspaiono, ma restano a lungo senza nome. Siamo visti abbruttiti, sfuggenti, volgari, irascibili, indifferenti, stanchi, soli. E noi quasi non ce ne accorgiamo. Quasi. Perché la verità è che non troviamo la soluzione in noi stessi e, così, fingere di non vedere è soltanto, drammaticamente, non sapere che cosa fare. Il peccato, la nostra personale assurdità, inizia ad essere tale quando Dio rifulge. E con Lui brillano la nostra provenienza e il nostro valore, di cui solo Dio sa davvero. La Chiesa — nelle lacrime di Pietro, nella chiamata di Paolo, nel pubblicano Matteo, in ogni storia che può raccontare — non ha altro tesoro: esiste sulla terra, ed è del Figlio dell’uomo, nostro Signore, Gesù, il potere di rimettere i peccati. Se non esistesse, nemmeno sapremmo di avere peccato. Egli custodisce eternamente la luce che è in noi, così che quando ci si aprano gli occhi sulla miseria che davvero siamo, rifulga la straordinaria potenza dell’amore. Se la Chiesa ha un punto di forza, sin dal principio sta nella sua capacità, più che di insegnare, di raccontare. La testimonianza apostolica trafigge il cuore nella sua forma di racconto. La meraviglia che la inabita è connessa originariamente con la scoperta, nel perdono, della propria infedeltà. È una nuova coscienza di sé, che inizia con la demolizione da parte di Dio di una falsa perfezione, di un’apparenza d’identità, di una messinscena fatta di sistematiche rimozioni. Quello apostolico è racconto di una rinascita senza “se” e senza “ma”, senza scuse né giustificazioni, senza sconti e diplomazie. I redenti non parlano di sé, ma di Dio; afferrati dalla sua grazia non hanno veli con cui coprire le proprie bassezze, nelle quali al contrario si fa più evidente il rovesciamento.

Si può continuare a giocare con i concetti, anche con quelli giusti: la Chiesa è santa, peccatori sono i suoi membri. Ma a chi serve questa distinzione e che cosa genera il ribadirla? Formalmente corretta, è buona se muove al rinnovamento. È triste, se nega la pervasività del male sulle forme sociali e gerarchiche in cui si configura l’intenzione del Fondatore. La paternità, infatti, è sempre esercizio di potere. Pasqua rinvia a un confronto fra poteri e all’opzione di Dio per quello crocifisso. Il modo di porsi di Gesù, tutt’altro che incolore, ci richiama come l’obbedienza alla Parola di Dio generi cambiamenti di forte impatto. Misericordia non è rassegnazione, ma deflagrazione del nuovo.

Attorno a noi, spesso, pare che tutto sia calcolato eppure niente funzioni. Competitività, merito, efficienza sono ricette, infatti, che non riescono a intercettare del tutto l’affascinante e contraddittoria struttura del mondo umano. Una spiritualità del nostro tempo potrebbe svilupparsi attorno al sacramento della riconciliazione come sacramento della libertà. Al suo centro sta, infatti, il nostro più clamoroso tabù: vulnerabili si rimane. Esso può fare eco al paolino «quando sono debole è allora che sono forte» (2Cor 12, 10). La ricerca d’identità viene oggi esasperata: l’imperativo consiste nella creazione di un proprio marchio, la tensione si sposta verso la ricerca del profilo giusto, di ciò che promette ai singoli e ai gruppi un momentaneo consenso: tutto può essere sacrificato a questa commercializzazione di sé in cui si vorrebbe generare la propria identità. Padre è chi intuisce che dietro alle azioni e ai processi di costituzione d’identità giacciono esperienze di vulnerabilità e mortalità che ognuno vuole nascondere a sé e agli altri. Il sacramento del perdono costituisce l’io mortale nella propria bellezza e ripristina l’identità cristiana: condividere con l’altro, nella sequela di Gesù, vulnerabilità e mortalità. La presenza dei poveri e la necessità dell’impatto con loro riguarda proprio l’esperienza di sé, una nuova percezione della propria identità. Qui la solidarietà dimostra una qualità ontologica superiore a quella etica: la carne dei poveri conduce a una più adeguata percezione dell’essere, a un più sereno rapporto con la propria mortalità. Per questo la penitenza deve farsi azione, non semplicemente in termini riparativi, ma di nuovo inizio. Saremo padri nello Spirito solo se segno di questa insistente apertura all’altro, di un’accettazione della ferita dell’altro, del riconoscimento che c’è sempre altro, di una critica a ogni sistema chiuso e saturante. Ecco a cosa restare il più possibile fedeli, per scongiurare la più triste delle sterilità.

di Sergio Massironi