«Patris corde»
La rivoluzione copernicana da Roma a Nazaret

Dal gesto di strappare
a quello di chinarsi

Particolare da «Non è te che aspettavo» di Fabien Toulmé
18 maggio 2021

Questione di forma, volontà, potere e forza. Finché cambia tutto e si passa a sostanza, amore, accoglienza e cura. Al di là delle mille eccezioni avvenute sia prima che poi, è comunque evidente che si tratti di uno sconvolgimento radicale. Quello di passare dal gesto di strappare a quello di seminare.

Nell’Antica Roma, in caso di nascita da donna nubile, il padre non esiste. Perché vi sia un padre servono le nozze. In questo caso, l’uomo è il princeps et caput familias, è la solida colonna dell’ordine pubblico e privato, il giudice, il sovrano detentore dei più sconfinati poteri sulla persona e sulle proprietà dei figli (è, in origine, lo ius vitae ac necis, e cioè il diritto di vita e di morte, seguito da exponendi, vendendi e noxae dandi, e cioè il diritto di esporre il neonato, venderlo come schiavo in territorio straniero o di cederlo ad altri per liberarsi delle conseguenze di un atto illecito che il figlio abbia commesso). E non è tutto. Oltre che assoluta infatti, la patria potestas è illimitata nel tempo: il raggiungimento della maggiore età come oggi intesa non è contemplato nell’Antica Roma.

Addirittura però, ci dicono le fonti, dapprincipio nemmeno l’esistenza delle nozze rende automaticamente il nato figlio del marito della madre. Oltre al matrimonio, infatti, il diritto romano richiederebbe un atto formale di accettazione da parte dell’uomo. È la cerimonia del ius tollere liberum: deposto il figlio ai piedi del marito, quest’ultimo mostra formalmente di volerlo prendere presso di sé. Ciò avviene dinanzi a testimoni sollevandolo da terra (poiché i figli nascono dalla madre terra), gesto con il quale l’uomo manifesta la sua volontà di riconoscerlo come proprio, di tenerlo con sé e di allevarlo. Del resto, anche linguisticamente, il termine genuino (utilizzato dal Seicento) viene dal latino genu, ginocchio, perché, come spiegano i vocabolari della lingua italiana, «il padre riconosceva come suo il neonato, sollevandolo da terra e posandolo sulle sue ginocchia».

Poi, arriva Gesù. E con Gesù l’idea di un padre che è amore, cura, dedizione, tenerezza. Di un padre che si china verso i suoi figli «per dargli da mangiare» (Os 11, 3-4).

In alternativa alla paternità come insieme di poteri e diritti sulla prole è il Dio Padre cristiano, il genitore amorevole che, prendendosi cura dei suoi figli, finalmente declina l’idea di una paternità anche in termini di doveri. Il mutamento, tra l’altro, si produce anche sul versante giuridico.

All’influenza del diritto canonico si deve ad esempio il fatto che nessuno dei Paesi occidentali riconosca più nel medioevo il diritto di vita e di morte del padre sui figli (che tuttavia rimane ancora nei costumi, come risulta dalla lotta sostenuta da alcuni concili per sradicarlo). Ed è sempre il diritto canonico a introdurre un altro principio fondamentale, quello secondo cui a ogni figlio (legittimo, illegittimo, adulterino o incestuoso) spetti il diritto di essere alimentato dal padre, essendo un dovere preciso quello di provvedere a chi si è messo al mondo a prescindere dalla sua origine.

La rivoluzione però non è avvenuta solo una volta nella Storia, ma avviene costantemente nello spazio e nel tempo quando un uomo — diventando padre — scopre e decide che genitore voglia essere.

La rivoluzione copernicana da Roma a Nazaret, nella sua essenza più nuda, vitale e pura segna, ad esempio, la paternità di Fabien Toulmé (Orléans, 1980), l’ingegnere francese che inizialmente rifiuta Julie, la seconda figlia, perché con la sindrome di Down. Nello splendido libro a fumetti Non è te che aspettavo (Bao Publishing 2018, traduzione di Francesco Savino), è lui stesso a raccontare la sua storia di uomo che fatica ad accettare la realtà ma che poi, piano piano, riesce finalmente a diventare padre passando dal gesto di strappare a quello di seminare. Un padre che, senza abbellire i suoi difetti e le sue paure, senza autoassolversi, si rivela in grado di fare un percorso («Mi sentii felice di essermi evoluto, di non vedere più l’handicap, ma il bambino»). Un padre che impara, semplicemente, a chinarsi. Ad amare (sullo sfondo la madre, che accoglie subito Julie, e che ha la pazienza di “aspettare” suo marito).

Per raccontare questa storia Toulmè, ingegnere civile, è diventato fumettista. Si diventa padri solo se si cambia. Se si lascia Roma e ci si avvicina a Nazaret.

di Giulia Galeotti