Intervento della Caritas in Somalia dove sta crescendo l’influenza del fondamentalismo islamico

Priorità alle fasce
più emarginate

A Somali woman sells fruits to a customer standing at a social distancing marker in late April in ...
12 maggio 2021

Silenzioso, lento, ma implacabile. Il covid-19 si è insinuato anche in Somalia. Il primo caso si è registrato il 16 marzo 2020. Poi è stato un crescendo. Dopo un anno i casi totali sono circa 14.000 e i morti più di 700. Ma sono statistiche parziali, probabilmente incomplete, perché la Somalia è un Paese che, da trent’anni a questa parte, vive una situazione di profonda instabilità politica, con istituzioni fragili, minacciate da un fondamentalismo aggressivo che ha il volto dei miliziani jihadisti di al-Shabaab (milizia legata ad al-Qaeda). Anche le strutture sanitarie pubbliche fanno fatica per la mancanza di posti letto, farmaci, medici, infermieri. In questo contesto così complesso opera la Caritas Somalia, una realtà che da decenni lavora per sostenere i somali, soprattutto i più poveri e dimenticati.

Caritas Somalia è l’espressione di una minuscola comunità di cristiani che professa la propria fede in modo nascosto per evitare di diventare obiettivo della violenza jihadista. «I somali non sono mai stati anticristiani — spiega monsignor Giorgio Bertin, vescovo di Djibouti e amministratore apostolico di Mogadiscio, una vita spesa per la Somalia prima come frate francescano e poi come presule — anzi, in passato ci vedevano in modo benevolo. Dalla caduta di Siad Barre, forse anche un po’ prima, con l’avvento di un islamismo che cerca di ricostruire la società ripartendo dalla legge islamica, i cristiani sono stati gradualmente emarginati». Una presenza, quella dei fondamentalisti islamici, molto forte. Sebbene siano stati respinti dalla costa e si siano rifugiati nell’entroterra, al-Shabaab (e nel Nord-Est anche il sedicente Stato islamico) controllano ancora vaste porzioni del territorio e da lì lanciano continui attacchi alle città e alle basi delle forze internazionali, sia quelle dell’Unione africana (Amisom) sia quelle delle altre componenti militari (nei mesi scorsi sono anche state prese d’assalto pattuglie di soldati italiani il cui contingente ha sede nell’aeroporto di Mogadiscio).

Ora i politici, pur non essendo ostili alla Chiesa, tendono a non garantire spazi ai cristiani perché temono di essere accusati di favorire i “crociati”. «Sono formule retoriche — osserva Bertin — che purtroppo, però, fanno presa. Detto questo, noi lavoriamo attraverso Caritas Somalia aiutando la popolazione. Ovviamente collaboriamo con i somali musulmani che, in stragrande maggioranza, non sono fondamentalisti». Tanti gli interventi nell’ultimo anno. In autunno è stata fornita assistenza alla popolazione colpita dal ciclone Gati che, si stima, abbia colpito 180.000 persone costringendone 42.000 a lasciare le proprie case. I morti sono stati decine. «Abbiamo lavorato nel Puntland, la regione nordoccidentale del Paese — ricorda Sara Ben Rached, direttrice di Caritas Somalia — in particolare abbiamo operato nella zona di Bosaso e Alula dove abbiamo prestato assistenza a 500 famiglie per un totale di 3.500 persone». Un intervento non facile perché effettuato in una zona in cui è forte la presenza dei jihadisti. «In alcuni centri — continua Ben Rached — non siamo potuti andare. Per distribuire gli aiuti (zanzariere, tende, zucchero, riso, latte, eccetera) ci siamo affidati alle comunità locali».

Le attività sono continuate, con molta discrezione per non urtare le sensibilità locali, anche in Somaliland, la regione settentrionale che nel 1991 si è autodichiarata indipendente, ma non è stata riconosciuta dalla comunità internazionale. Caritas Somalia, che qui prende il nome di Caritas Naxariis (Misericordia), lavora a un progetto educativo a favore di trentacinque bambini sfollati. «Sono iniziative umanitarie — continua la direttrice — progetti che permettono ai piccoli di crescere in un ambiente stimolante e offrono loro quell’educazione di base che può aiutarli a costruirsi un futuro più sereno».

Con l’arrivo della pandemia, Caritas Somalia è scesa in campo, anche grazie al sostegno della Conferenza episcopale italiana. «Il coronavirus è un’autentica emergenza — spiega Ben Rached — noi ci siamo posti il problema di come poter intervenire in modo efficace. Abbiamo deciso di operare soprattutto nei campi della sensibilizzazione e della distribuzione dei dispositivi di protezione individuale e per questo motivo abbiamo lavorato a quattro progetti diversi». Con l’Università cattolica di Milano è stato messo in campo un programma di formazione di venticinque giornalisti che, a loro volta, hanno lavorato attraverso podcast e programmi radio a informare le comunità sui pericoli del virus e su come evitarlo. Nel Puntland, poi, non solo sono state distribuiti mascherine, guanti, disinfettanti negli ospedali di Garowe e Bosaso, ma è stata fatta un’opera di sensibilizzazione nei campi profughi dove vivono centinaia di somali ed etiopi. «Infine a Mogadiscio — osserva la direttrice — grazie alla collaborazione con Cimic Group (un reparto multinazionale interforze a guida italiana per la cooperazione civile-militare) e Amisom, abbiamo lavorato in sette campi profughi per portare materiale medico-sanitario che potesse aiutare a evitare il contagio. Quello di Caritas Somalia è un lavoro sociale prezioso che ci permette di mantenere un forte legame con il Paese reale e la sua gente. Un lavoro che continuerà anche nei prossimi anni con progetti in diversi campi che stiamo studiando, tenendo sempre presente le fasce più emarginate della società, in particolare le donne e i bambini».

di Enrico Casale