Ricostruire impone anche l’obbligo di provvedere ai bisogni e al futuro della popolazione

Un impegno non solo edilizio

Aleppo
11 maggio 2021

La conclusione di una guerra, oltre alle ferite sul corpo dei singoli, lascia i segni delle bombe e dei combattimenti casa per casa sulle macerie degli edifici e delle opere architettoniche e artistiche spesso uniche. Ricostruire, soprattutto quando si tratta di parti estese di città, comporta un impegno che non è solo edilizio: impone l’obbligo di provvedere ai bisogni e al futuro di una popolazione costretta, quasi sempre, in condizioni precarie, se non addirittura invivibili. Ciò impone lavori rapidi, proprio per non disperdere il contatto degli abitanti con il territorio ed evitare traumatici sradicamenti sociali. All’origine si deve pertanto delineare un piano che non lasci spazio all’indecisione, sorretto da scelte culturali ed economiche precise e chiare negli obiettivi.

Le difficoltà sono maggiori quando la consistenza edilizia è eterogenea e gli interventi non sono riconducibili a un unico indirizzo. È indispensabile in questo caso saper riconoscere le caratteristiche fisiche e ambientali del luogo per avviare una programmazione calibrata, anche se diversificata.

L’urgenza umanitaria deve rendersi compatibile con il rispetto di una ricchezza artistica che, molto spesso, viene da una cultura materiale, legata alla qualità delle tradizioni ancor più che al prestigio delle singole opere. Il processo di ricostruzione ha bisogno di articolarsi su più piani; deve essere guidato dalla sensibilità di operatori che siano in grado di porre in relazione più interessi e valutare nel giusto grado le priorità.

Alla fine della Seconda guerra mondiale, per la città di Dresda, praticamente rasa al suolo, è stato seguito il criterio della fedeltà all’originale, rispettando le forme e i materiali degli edifici preesistenti. La situazione attuale in Medio Oriente è profondamente diversa: per intervenire è necessario mettere a punto accorte scelte metodologiche, capaci di guardare lontano, con l’obiettivo di misurare il lavoro attraverso mete sia artistiche e tecniche che economiche. La condizione, apparentemente ingestibile, dei territori dove si combinano pre-esistenze molto diverse per valore e consistenza, presenta, pur nella sua tragicità, una opportunità straordinaria: porre all’interno di un unico piano più strategie, tutte finalizzate a valorizzare o riedificare un patrimonio materiale, stratificato attraverso tanti anni di storia, e anche a recuperare quanto è stato portato via da musei e siti archeologici.

L’impresa può offrire proiezioni scientifiche virtuose, forse anche l’opportunità di far riemergere competenze e mestieri preziosi che rischiano di scomparire. Questo non deve essere inteso come un romantico tentativo di ritorno al passato, bensì come l’occasione per promuovere posti di lavoro qualificato, spendibili soprattutto all’interno di un percorso edilizio attraversato da una lucida visione del futuro.

Un caso esemplare è costituito dalla situazione in Siria dove gli interventi di recupero riguardano condizioni molti differenziate: dal tessuto residenziale e commerciale della città vecchia di Aleppo al patrimonio archeologico di Palmira, devastato soprattutto nei primi anni della guerra civile. Il momento può essere paradossalmente favorevole, in quanto la notorietà e la storia dei luoghi riescono a coinvolgere strutture di ricerca internazionali, impegnandole in una consistente partecipazione di contributi e competenze, anche scientifiche e didattiche.

Questa condizione non riguarda però solo la Siria: nell’area mediterranea e mediorientale le regioni sottoposte a distruzioni belliche sono molte e distribuite su territori alquanto vasti. Sono tutte zone che possono avviare un processo decisamente virtuoso, sostenuto dal valore universale delle loro preesistenze. Uno stato di particolare gravità è nello Yemen, dove le condizioni economiche e sanitarie sono ormai allo stremo. Da anni, in particolare a partire dalla Primavera Araba, la popolazione è soffocata dalle malattie e dalla carestia. A questa situazione, disastrosa dal punto di vista umanitario, si aggiunge il grave pericolo ambientale di rischiare di perdere un patrimonio edilizio di valore unico: i grattacieli di Sanaa, di Shibam, ecc.

Sul Mediterraneo, Tripoli, dove è previsto l’intervento italiano per il restauro di alcuni edifici coloniali, Beirut, già da anni interessata da lavori di recupero; in Medio Oriente, Aleppo, Palmira, Bosra in Siria, Sanaa nello Yemen, Al-Hillah (l’antica Babilonia) e Mosul, di recente visitata da Papa Francesco nel suo viaggio apostolico in Iraq, sono tutte città simbolo, molte nominate dall’Unesco siti mondiali dell’umanità, sulle quali la comunità internazionale sta mostrando interesse a investire per un naturale spirito di solidarietà, ma anche nella prospettiva di un concreto rientro economico e lavorativo. Giovani, studiosi e operai, parteciperanno alla ricostruzione di luoghi che, per il loro valore e prestigio, potranno restituire in termini culturali, turistici, commerciali e produttivi, quanto impegnato.

Il settore dell’edilizia è un motore di crescita molto efficace, sperimentato proprio nei periodi del dopoguerra, per rilanciare l’economia e smussare le distanze tra le regioni più ricche e quelle più disagiate. La ricostruzione offre peraltro un campo aperto all’imprenditoria: non impegna solo le aziende specializzate e di alto fatturato; consente anche ai piccoli imprenditori di partecipare, proprio perché i lavori hanno entità diverse e possono corrispondere alle risorse e alle capacità di molti.

Forse la pandemia che ha colpito tutti, indifferentemente, potrebbe risultare un motore attivo per favorire la messa in circolo di maggiori impegni e risorse. Avendo livellato, in tutto il mondo, lo stato di tensione, anche emotiva, potrebbe far riconoscere nel patrimonio architettonico e artistico la lingua universale che superi distanze, dipendenti soprattutto da ignoranza e incomprensioni. E forse il percorso naturale, che vorrebbe l’inizio delle ricostruzioni solo dopo il termine dei conflitti, potrebbe essere favorito dal coraggioso salto in avanti di promuovere subito azioni di recupero, possibili proprio perché sostenute dalla presenza di operatori provenienti da tutto il mondo, contribuendo ad accelerare la pacificazione e la chiusura di scontri civili ancora in atto. Sicuramente i Paesi europei dovrebbero essere i principali sostenitori di queste iniziative, dal momento che la vicinanza e, soprattutto, la contiguità storica con i Paesi arabi rendono facile la comunicazione e la ricerca di studiosi e imprenditori disposti a intervenire e collaborare con le maestranze locali, in uno spirito umanitario e non egoistico, di interesse nazionale, aziendale o privato.

Il lavoro che si presenta ha bisogno di tempi e modalità meditate, in quanto la semplice ricostruzione, se pensata in termini “pittoreschi”, può addirittura essere nociva. I centri storici hanno un ruolo importante, decisivo per attrarre risorse e sostenere l’interesse di tutti, ma, per rimanere vivi hanno bisogno di una popolazione residente attiva e coinvolta nella loro storia. L’intervento sul patrimonio artistico immobiliare è prioritario, ma altrettanto prioritario è ristabilire buone condizioni di abitabilità in tutti i centri urbani. Senza provvedere alla dotazione di ospedali, scuole, luoghi di culto, strade, luce, acqua, ecc., e a offrire nuove possibilità di lavoro le città si spopolano perché gli abitanti cercano rifugio in altri luoghi meglio attrezzati per vivere. Si potrebbe così favorire il ritorno in patria di almeno una parte delle centinaia di migliaia di profughi, anche appartenenti a minoranze etniche e religiose.

L’impegno deve essere pertanto quello di investire, mantenendo in equilibrio l’interesse per la conservazione delle città e delle opere d’arte, con il consenso e il contributo delle Autorità locali, senza perdere di vista la vitalità dei luoghi che, altrimenti, diventerebbero solo siti artistici e archeologici da preservare.

di Mario Panizza