L’intervista

Alla scoperta del cuore verde di Srebrenica

 Alla scoperta  del cuore verde  di Srebrenica  QUO-105
11 maggio 2021

Classe 1987, Irvin Mujčić sta ricostruendo il villaggio di Kasapic a tredici chilometri da una delle città simbolo della guerra. 
Casette di pietre e faggi, un mulino per la produzione di farina ed energia elettrica, spazi comuni per spettacoli e laboratori... 


Irvin Mujčić, classe 1987, sta ricostruendo il villaggio di Kasapic che, a 13 chilometri da Srebrenica, nel corso della guerra in Bosnia ed Erzegovina, venne completamente raso al suolo. L’idea è quella di tirar su molteplici casette di sassi, pietre, faggi e abeti, secondo lo stile tradizionale della zona, un mulino per la produzione di farina ed energia elettrica, nonché spazi comuni, pensati per ospitare spettacoli culturali, laboratori per bambini, seminari.

Incastonato tra l’omonimo torrente e il fiume Jadar, il piccolo borgo, grazie pure al crowdfunding avviato e all’interessamento di diverse associazioni, è dunque destinato a raccogliere pratiche ecologiche e artistiche, continuando a puntare su tutte quelle attività di turismo sostenibile, già sottese a Srebrenica – Città della speranza. In base a tale progetto, nel 2017 è nata infatti la Casa della natura che, con una ventina di posti letto, accoglie visitatori e viaggiatori da ogni dove, offrendo loro un inedito punto di vista sulla cosiddetta città d’argento, fatto di bellezza, escursioni, trek-king, passeggiate a cavallo, riscoperta delle relative risorse termali e di luoghi incontaminati. Di una natura, in definitiva, che è prevalsa sul male.

Quando ci mettiamo in contatto con Mujčić, dietro le sue spalle scorgiamo, non a caso, l’azzurro del cielo e il verde brillante di una distesa d’erba accarezzata dal vento. Le domande che gli rivolgiamo — mentre è per qualche ora in pausa dai lavori al villaggio che diventerà il centro delle attività turistiche — riguardano non solo i progetti realizzati (e da realizzare) nella terra da cui è fuggito all’età di 8 anni e dove, da adulto, ha deciso di far ritorno, ma anche la sua storia, il suo passato di bambino sopravvissuto al genocidio di Srebrenica del 1995. E cioè alla più grave strage in Europa dopo la fine del secondo conflitto mondiale, in cui, per la furia cieca dei nazionalismi, vennero uccisi dalle milizie serbo-bosniache oltre 8 mila bosniaci musulmani: per la maggioranza ragazzi e uomini, molti dei quali ancora in corso di identificazione.

Quando e perché ha scelto di realizzare «Srebrenica – Città della speranza?»

Il progetto nasce nel 2014, l’anno in cui, dopo circa vent’anni d’assenza, sono tornato a vivere in Bosnia e ho iniziato a vagabondeggiarvi con lo zaino in spalla. In quell’anno mi sono imbattuto in una natura selvaggia e intatta, in piccoli villaggi, spersi tra le montagne, dove la gente tuttora ti offre aiuto in qualsiasi forma, preparandoti il caffè quando ti vede passare o il letto dove pernottare. Srebrenica è conosciuta principalmente per i crimini di guerra, per le fosse comuni e per i campi minati: entrando in contatto con la sua natura, con l’accoglienza e l’umanità delle persone che vi sono tornate a vivere, mi sono reso tuttavia conto di che grande offesa fosse associare la città esclusivamente al genocidio. Così, ho deciso di iniziare a lavorare su un turismo verde, sostenibile, ecologico e l’ho fatto collaborando con l’associazione italiana Gli amici della natura.

Quali attività vengono proposte ai visitatori?

Ci sono tour che vanno dai 3 ai 7 giorni all’insegna dell’avventura e della scoperta del territorio, si cammina giornalmente per 20 chilometri, si incontrano i vari villaggi, gli abitanti, i sapori antichi. Alcuni gruppi invece rimangono per più tempo, arrivano per prendere parte ai campi giovanili di lavoro (questa estate ad esempio aspettiamo giovani francesi per la costruzione del nostro mulino), basati sulla raccolta della plastica, in zone dove ve ne è un’alta concentrazione, e su attività analoghe, tese alla salvaguardia e sostenibilità ambientale. Tante attività sono inoltre collegate alla visita del centro memoriale di Srebrenica: alle scolaresche che arrivano però raccontiamo anche altro, non solo le conseguenze dei nazionalismi e dei fanatismi religiosi; gli doniamo una nuova visione della città grazie ai sopravvissuti e alle loro testimonianze, che parlano di come sia oggi questo luogo e delle peculiarità della cultura bosniaca. Cerchiamo di valorizzare la tradizione, i prodotti tipici della zona, quelli dei nostri contadini. E poi, oltre al contatto con la natura e ai laboratori culturali, per il futuro, tassello dopo tassello, vorremmo introdurre i metodi per produrre il caffè e per utilizzare le erbe selvatiche presenti, con lo scopo di dar vita a tisane naturali, dall’aglio orsino alla betulla fino all’ortica, sempre per generare reddito all’interno della comunità. Devo dire che nei 12 mesi precedenti alla pandemia — un’ulteriore prova da superare — abbiamo avuto circa 4 mila visite e quindi un riscontro positivo da parte delle persone.

Oltre alle associazioni con cui collabora, chi è parte attiva del progetto?

Lavoro, tra gli altri, con 7 famiglie dei villaggi intorno a Srebrenica. Persone che si occupano di agricoltura e allevamento, e che, dopo la pulizia etnica, hanno avuto la possibilità di tornare in Bosnia a partire dagli anni Duemila, decidendo di farlo con forza e coraggio. C’è da dire che prima della guerra la città contava oltre 37 mila abitanti, oggi su tutta la municipalità di Srebrenica ce ne sono circa 5 mila.

Perché lei nel 2014, dopo più di vent’anni dal giorno in cui riuscì a scappare nel 1992, ha deciso di tornarvi, e di restare?

Sono tornato per partecipare alla marcia della pace, organizzata nel mese di luglio per commemorare le vittime del genocidio. Percorrendo il sentiero tra i boschi, che le persone attraversarono per fuggire e dove in molti vennero uccisi, e poi avvicinandomi a Srebrenica, città a poco a poco morente, mi sono chiesto che ruolo avesse la mia generazione in tutto questo. Io ho avuto la fortuna di essere salvato dalla guerra grazie a mia madre, di vivere in Italia, formarmi, studiare e lavorare a progetti assai importanti, come ad esempio quelli sui diritti dei bambini rom, a livello europeo, accumulando esperienza. Ecco, che senso avrebbe potuto avere tutta questa esperienza, se avessi lasciato ai suoi fantasmi la mia città? Ho sentito il dovere di tornare a casa, conscio che la miglior risposta alla pulizia etnica fosse la convivenza religiosa, il dialogo, appunto, tra persone di etnie, religioni e background culturali differenti.

Non deve essere stato comunque semplice.

Non lo è stato. Tornare significa riaprire cicatrici profonde, significa imbattersi nei traumi, nei mostri del passato, fare i conti con se stessi e con una storia che ha portato via mio padre, mio zio. Nel 1995 avevo 8 anni. La mia infanzia è stata distrutta come accade oggi anche a quei bambini che dalla Siria all’Afghanistan o all’Iraq vivono la guerra, vedendosi negato il diritto a essere felici. Eppure, contro il parere di tutti, considerato il difficile aspetto politico-economico della città, sono tornato.

Si è sentito in un certo modo straniero a Srebrenica, nella sua città, dinnanzi alle “persone del luogo”?

Anche, sì, straniero. Inizialmente. Ma è [ride] interessante che ancora oggi si parli di persone del luogo: chi è tornato a vivere a Srebrenica è abituato ad avere concittadini che abitano all’estero o che magari vi fanno ritorno solo per un breve periodo dell’anno.

Questa risposta è un’importante lezione di cittadinanza. Così come lezione di convivenza pacifica è il fatto che lei, a partire dai lavori alla Casa della natura (che era la casa di suo nonno e in cui ricorda d’aver lasciato i suoi giocattoli prima di scappare) fino a quelli attuali, si sia rimboccato le maniche per la ricostruzione, per reinvestire nello sviluppo della comunità. Ebbene, cosa significa ricostruire?

Ricostruire è l’atto più normale dopo una guerra. La mia generazione deve farlo perché è proprio dalla ricostruzione, dall’atto pratico del lavoro, che si può incidere su tutte le anime sociali e politiche del Paese. Ricostruire poi dà parecchia soddisfazione: quando qualcosa ti viene distrutto, dentro hai rabbia sì, ma puoi mostrare a chi te lo ha distrutto che sei capace di ricostruire, e di farlo bene. La ricostruzione infine è una nuova costruzione, che alla base ha delle ceneri e al centro una visione consapevole del mondo. Del resto bisogna tenere conto dei problemi di oggi, legati al clima, alla crisi umanitaria e di valori in Europa, per costruire qualcosa che possa generare cambiamento.

di Enrica Riera