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Cronache post-nichiliste

 Seneca  e i «ruba-tempo»  QUO-104
10 maggio 2021

Abbiamo chiesto a un gruppo di studenti  di confrontarsi con i temi trattati  nel libro di Costantino Esposito  (ordinario di Storia della filosofia e Storia della metafisica all’università di Bari Aldo Moro e Visiting professor all’Istituto di Studi Filosofici di Lugano) Il nichilismo del nostro tempo. Una cronaca (Roma, Carocci Editore, 2021, pagine 156, euro 14). Maria, Enrica e Alice (oltre ad altri ragazzi, che leggerete prossimamente sul nostro giornale) hanno risposto all’appello, inviandoci le loro riflessioni sul saggio di Esposito. Il nichilismo, si legge nell’introduzione al libro, è tornato a essere una questione aperta nel nostro tempo. Le domande che in passato, con la sua critica degli idoli, aveva dichiarato ormai impossibili — come la domanda sul senso ultimo di sé e della realtà, sulla verità dell’io e della storia, sul nostro desiderio in rapporto all’infinito — si rivelano nuovamente possibili, ragionevoli, brucianti. Oggi il nichilismo non sembra più consistere, come nella sua forma classica, in una perdita di valori e di ideali, ma piuttosto nell’emergere di un bisogno irriducibile, «più nudo, forse — chiosa l’autore del libro — ma molto più impegnativo». Così, dall’essere un ostacolo, può diventare una occasione per la ricerca di un significato vero per la nostra esperienza nel mondo; il volume intercetta e raccontare — come la cronaca di un viaggiatore — questo fenomeno nuovo, offrendo una traccia alla verifica dei lettori. (silvia guidi)


Il dramma della distrazione e della scelta nella riflessione
di una studentessa 

Seneca e i «ruba-tempo»


La mia vita è mossa da un’inquietudine e una ricerca di senso, verità, bellezza e felicità che si esprimono in due tendenze naturali: la prima, preponderante, di camminare nella speranza di un’ipotesi di risposta (il che non annulla la domanda) fondata sulla fede e la fiducia in persone che mi vogliono bene; la seconda di accomodarmi nelle cose più facili e immediate, che si insinua in fondo come un non rispondere passivo, come un sottile sospetto che in fondo nulla abbia senso: tendenza suggerita, appoggiata e probabilmente ereditata dal contesto storico nichilista in cui vivo. La prima tende al bene e mi spinge a muovermi, a faticare, a cercare; la seconda tende al nulla — alla mancanza di senso — e mi mette tacitamente in scacco.

Credo che la forma di nichilismo che più tocca concretamente la mia quotidianità assuma il volto della tentazione a perdere tempo. Come direbbe Seneca «Magna pars vitae elabitur male agentibus, maxima nihil agentibus, tota vita aliud agentibus». Qui l’aliud è “peggio” del nihil, del “niente”, infatti l’ultimo termine della progressione è un aliud che intendo oggi in senso profondamente nichilista: spesso nella nostra vita domina l’aliud, ciò che distrae, l’altro, l’estraneo, che non ci appartiene. Nella nostra epoca questo nulla, per esempio, prende spesso il volto ingannevole dell’intrattenimento superficiale che in tutte le sue forme — la televisione, i social network — ci attrae. In fondo si spende tempo a guardare gli altri, in cose inutili: perdere tempo è dunque una forma di nichilismo perché significa non riconoscere un senso al tempo, e di conseguenza un’inerzia nell’agire — una non voglia di studiare, di faticare — come se fosse comunque vano: se nulla ha senso, perché impegnarsi?

Dunque per quanto mi scandalizzi e mi irriti il nichilismo del mondo in cui vivo, non posso tuttavia negare di essere anche io, direi, in qualche misura figlia del mio tempo, e di risentire a volte passivamente di certe inclinazioni, come il facile cedimento al comodo e alla perdita di tempo, proprie di questo momento storico. Ma innanzitutto in quanto essere umano (che non è mai solo figlio del suo tempo) e per la natura indomabile e vivace del mio carattere, per l’educazione che ho ricevuto, i contesti in cui sono cresciuta e le persone che ho incontrato, non mi sono mai accontentata per molto della comodità (tra l’altro, so riconoscere molto bene il nulla quando ci finisco dentro, e sono anche molto libera di scegliere se uscirne o meno). Per gli stessi motivi, nella mia vita l’incertezza — che domina specialmente oggi, in tempo di pandemia — la paura per il futuro, la fatica a fare fatica e il perdere tempo, per quanto tentazioni presenti e a volte assecondate, non possono essere l’ultima parola. Questo mio movimento interiore si manifesta ad esempio di fronte alla sfida più decisiva per me in questo momento: la scelta dell’università, che in me si pone realmente come dramma in senso kierkegaardiano.

Da un lato è entusiasmante la quantità di proposte tra cui mi è data la possibilità di scegliere ciò che esprime al meglio la mia identità, dall’altro scegliere una cosa sola significa escludere tutte le altre possibilità e dunque non basta rispetto a una pretesa di totalità, la più nobile tensione all’infinito di cui non posso fare a meno, ricollegabile a quella prima tendenza al bene.

Questa consapevolezza e questo desiderio aprono a un panorama vertiginoso, nel quale, paradossalmente, si gioca proprio il dramma della scelta, di prendere una posizione: il punto non è in fondo non scegliere nulla per una paura di ridimensionare, determinarsi e quindi forse soffocare quella tensione alla totalità e alla grandezza (sarebbe una fregatura in ogni caso), ma proprio per alimentarla e spalancarla, trovare finalmente quel frammento che possa tenere in sé il tutto.

Forse sarebbe meglio non dover prendere una decisione simile, rimanere al liceo, dove si studia tutto, ogni cosa per cui varrebbe la pena di spendere la vita: ma sarebbe come dire che sarebbe meglio rimanere sempre bambini, e che il tempo non finisse mai. Certo, sarebbe meglio.

Ma dato che non è così, e che la scelta universitaria è un passo decisivo dato dalla realtà, che in fondo mi chiama rispetto al destino della mia vita, non potrò venir meno alla tensione della ricerca dell’universale nel particolare. La tendenza ad adagiarsi nel nulla in certi momenti ha la meglio, per la stanchezza, per la tristezza e l’insoddisfazione, ma il nulla non può soddisfare veramente il desiderio di bene e la ricerca di senso, innanzitutto per un istinto altrettanto naturale, e poi se si è incontrato o intravisto visto qualche ipotesi più soddisfacente.

Per questi due motivi — come accadeva a Leopardi nel suo nichilismo esistenziale attivo, che, pur in assenza di amici con cui condividerlo, non lo lasciava mai tranquillo — non può mai vincere in me, in definitiva, la tendenza al nulla, per una tensione irriducibile a cercare qualcosa che sia all’altezza del mio desiderio: primo fondamento della speranza che nella mia vita è alimentata in un contesto di persone che non solo mi testimoniano un’ipotesi di risposta, ma mi accompagnano vivendo davanti a me pieni dello stesso desiderio.

di Maria Zagra
III anno, Liceo classico Istituto Sacro Cuore di Milano


Un barlume nel buio


Perché vivere quando tutto ciò che caratterizza la nostra vita sembra un puro nulla? Quanti volti ho visto spiazzati davanti questa domanda, in quanti sguardi ho sentito un silenzio che ha portato il gelo tutt’intorno. Ma forse, in realtà, la risposta sta già nella domanda stessa. Fosse anche solo per comprendere questo “perché”, la vita vale. Ed è proprio da quel nulla che tanto ci fa paura che può ricominciare la vita.  Quanto sento che la giornata si è esaurita nella prassi della sua monotonia, che nulla riesce a ridestare il mio cuore tanto sovrastato dallo studio, dai miei pensieri, dalla ciclica quotidianità, capisco che è proprio in quel momento che sono alla ricerca del Tutto. E il grido di paura dell’umanità davanti al nichilismo è già una reazione. Il nulla può essere superato dalla Luce che esiste per ognuno di noi e bussa a tutte le nostre porte; è un dono offerto incondizionatamente a tutti ma accolto solo da coloro che si lasciano amare, che “tengono conto dei segni”, direbbe Esposito. Ed è proprio da qui che la mia vita è cambiata; nell’esperienza di questo grande Amore tutto è rinato, tutto si è illuminato; ho conosciuto l’amore di veri amici che non mi lasciano scappare dalla realtà alla ricerca di un effimero piacere, non mi portano a caccia di illusioni ma mi pongono davanti al mio dolore, davanti al mistero della vita senza però lasciarmi sola, tenendomi sempre la mano. Di un “barlume nel buio” parla Esposito nel suo libro, il “forse” tre volte ripetuto da Leopardi alla fine del canto del suo pastore, le “stelle” che  concludono le tre cantiche di Dante, ma qualunque sia il termine che dà identità a questa fievole fiamma, la realtà esiste per ognuno di noi e non possiamo voltarle le spalle.

La vita vera è una scelta che ha bisogno di un “sì”, e il nulla ha bisogno di essere messo ogni giorno alla prova in relazione alla totalità. Del dolore nessuno di noi è privato; siamo al mondo grazie all’amore di un Padre che non ha risparmiato la croce a suo figlio, ma il nulla regge davvero davanti l’immensità della vita che ci è data?

di Enrica Conte
V anno, Liceo classico Nicola Spedalieri di Catania


Ascoltando il battito del cuore


Io esisto, indipendentemente dagli altri. Non è facile arrivare a tale constatazione, soprattutto se il mondo in cui vivi è animato da un nichilismo talmente profondo, da non poter essere neanche lontanamente paragonabile a quello del secolo scorso.

Ciò significa che, in una realtà come quella odierna, è bene e necessario rendersi conto del fatto che “esserci” (“essere qui”) non è scontato, ed esistere per se stessi non è banale. Questa coscienza così preziosa e chiarificatrice mi è giunta durante la terribile esperienza del primo lockdown, a causa della pandemia da covid-19: ho finalmente capito cosa significhi conoscersi, essere “umano”, ascoltare il ritmo del proprio cuore, sentire la mente, i pensieri che viaggiano e interagiscono. Insomma, esserci.

Fin qui tutto bene, il problema vero e serio arriva quando qualcosa dentro di te (l’anima, la mente) ti pone il quesito più difficile: “perché ci sei? Perché vivi?”. Il sangue si ferma, il respiro si blocca e tu rimani lì, di fronte a te stesso, cercando di biascicare qualche parola o pensiero frivolo capace di silenziare quella domanda che ti tiene sveglio, che genera ansia e tristezza incolmabile, che non ti fa vivere. Ebbene, la risposta  è proprio davanti a noi, dentro la nostra anima: io vivo per il desiderio di vivere, per quella tensione verso l’infinito che mi fa dimenticare di essere mortale e finito; vivo per quello «spirto ch’entro mi rugge».

È questo il vero significato della vita: essere cosciente di sé, vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo, amare incondizionatamente e soprattutto lottare per la bellezza. È sempre stata la volontà dell’uomo di trovare la bellezza dentro e dietro ogni cosa, a spingerlo verso grandi azioni e a costruire tutto quello che oggi abbiamo. Non siamo finiti, non siamo morti e un barlume di speranza ancora c’è: se solo ci rendessimo conto del grande miracolo della vita, del fatto che l’essere nati è stata una grande improbabilità nel panorama di infinite possibilità, la vita inizia ad avere un senso. Siamo qui per conoscere, per stare bene, per vivere; tutto il resto non ha importanza.

E se è vero che il tempo scorre e non c’è modo di arrestarlo, se è vero che l’essere umano è abietto e nichilista, è pur vero che qualcuno ha ancora l’animo incendiato, che alcuni si amano e che altri stanno imparando a farlo, ma tutti ci siamo e nulla è ovvio. E come scrisse il sommo poeta, «fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza».

di Alice Bove
V anno, Liceo Benedetto Croce di Avezzano