Torna in scena «La Mafia» di don Luigi Sturzo, uno spettacolo teatrale scritto all’alba del Novecento

Centoventi anni, ma
non li dimostra

 Centoventi anni, ma non li dimostra   QUO-103
08 maggio 2021

Porte rosse che si aprono e si chiudono in continuazione, rettangoli rossi che disegnano le sagome scure dei personaggi, trasformandoli in lugubri carte da gioco. Intercambiabili, e a due dimensioni. Sono tutti vestiti di nero, i personaggi in scena, ostaggio di un decoro borghese che li omologa fino a privarli della loro identità: cappotti neri, guanti neri, anime che affondano progressivamente in un pantano di risentimenti, vanità ferite, ricatti. Il dramma in cinque atti di don Luigi Sturzo La mafia (che debutta al Teatro Duse di Roma l’8 maggio e sarà in scena al Teatro della Pergola di Firenze il 12 maggio) sembra scritto domani, più che ieri, come chiosano gli spettatori che hanno assistito al “prima della prima”; la data della prima rappresentazione è molto lontana (1900) ma i meccanismi di collusione, insabbiamento, complicità con il malaffare sono sempre gli stessi. Il mondo esterno non esiste più, nell’allestimento di Piero Maccarinelli; la famiglia, i figli, la natura stessa (come il feudo di Sant’Eufemia dell’aspirante sindaco, Roberto Palica) tutto diventa moneta di scambio per tenere in pugno gli avversari. Il tempo si è fermato, esiste solo una partita a poker dall’esito incerto che assorbe ogni energia, un duello crudele e freddo come una sfida a scacchi, accuratamente celato sotto un velo di bon ton. L’inferno diventano gli altri (non “sono gli altri” come nella celeberrima pièce di Sartre, ma lo diventano con il dipanarsi dell’intreccio) quando l’avidità e il desiderio di emergere rendono disponibili a qualsiasi compromesso. Il regista ha snellito il testo e reso più scabri i dialoghi, sfrondando ogni appello ai buoni sentimenti; di un dramma si tratta, in fondo, scritto per svegliare le coscienze dei contemporanei (anche se i tentativi di edulcorarlo non sono mancati, come vedremo più avanti).

«Nel febbraio 1900, a Caltagirone — si legge nelle note di regia — si rappresenta La Mafia su un fenomeno criminale fiorente, che parla di Bene e di Male, ma che è anche storia vera. Una testimonianza dei legami già allora esistenti tra mafia e politica; legami ripetuti, complessi e forti al punto di condizionare le aule di giustizia. Al centro della messa in scena l’omicidio avvenuto nel 1893 del cavalier Notarbartolo, direttore del Banco di Sicilia, ex sindaco di Palermo e deputato del Regno».

Era stato proprio Sturzo, alla vigilia della rappresentazione, a sottolineare in un articolo a sua firma su «La croce di Costantino» l’inquinamento evidente della vita sociale, culturale, economica e politica della giovane nazione. Non si trovò, tra le carte di Sturzo, dopo la sua morte — scriveva Sciascia, in un articolo del 1987 uscito sul «Corsera» — il quinto atto che lo completava, e «lo scrisse Diego Fabbri, volgarmente pirandelleggiando e, con edificante conclusione. Ritrovati più tardi gli abboni di Sturzo per il quinto atto, si scopriva la ragione per cui la pièce era stata dal suo autore chiamata dramma (il che avrebbe dovuto essere per Fabbri, avvertimento e non a concluderla col trionfo del bene): andava a finir, male e nel male, coerentemente a quel che sapeva e vedeva. Siciliano di Caltagirone, paese in cui la mafia allora soltanto, sporadicamente sconfinava, bisogna dargli merito di aver avuto, chiarissima nozione del fenomeno nelle sue articolazioni, implicazioni, complicità; e di averlo sentito come problema talmente vasto, urgente e penoso da cimentarsi a darne un “esempio” (parola cara a san Bernardino), sulla scena del suo teatrino».

di Silvia Guidi