Atlante - Cronache di un mondo globalizzato
Esplode la richiesta mondiale ma l’ecosistema non può sostenerla senza morire

Sta finendo la sabbia

Sand dredging on Dongting Lake, China, on a waterway connected to the Yangtze River.
07 maggio 2021

Fame di sabbia: l’economia mondiale che cerca modelli sostenibili, ha una disperata fame di sabbia: le serve a ricostruire la normalità per il dopo pandemia. Ponti, strade, centri urbani, ospedali: ma anche lo schermo dei computer, gli smartphone, le lenti ottiche, i vetri delle finestre, i filtri per l’acqua.

L’economia divorava sabbia prima della pandemia del 2o20 già a ritmi ben più accelerati di quelli fisiologici che i fiumi rispettano nel produrla. Ora che la pandemia non è passata ma ci impone un ripensamento di sistema ed infrastrutture adeguate, la fame di sabbia è diventata disperata.

Solo gli Stati Uniti metteranno qualcosa come 3.500 miliardi dollari per infrastrutture pubbliche ormai fatiscenti. E questo vorrà dire soprattutto: calcestruzzo, a base di sabbia. Sabbia da estrarre dai fiumi, la più pregiata, dai laghi, dalle spiagge, lasciando solo quella dei deserti, troppo levigata.

Perché la sabbia è la materia prima più saccheggiata e preziosa dopo l’acqua. Ma se sull’acqua si fanno guerre da sempre, è negli ultimi due secoli che la sabbia è diventata pane. Ce ne siamo accorti poco: troppo a portata di mano, troppo facile da estrarre, tanto visibile da essere trascurata dal legislatore. Il consumo dei fiumi e delle spiagge, però, è esploso per sostenere l’urbanizzazione commerciale prima del nord del mondo, poi del sud. L’impatto sugli ecosistemi fluviali, lacustri e marini, dal nord e centro America, fino a Cina, India, Cambogia, Vietnam e Thailandia è stato gravissimo. Per avere un’idea della mostruosa quantità di sabbia che occorre per realizzare i progetti di infrastrutture efficienti imposti dalla pandemia basti dire che la previsione pre-covid diceva che le 40 gigatonnellate (una gigatonnellata equivale a mille milioni di tonnellate) estratte nel 2014, sarebbero “solo” quadruplicate una volta l’anno. E già così sarebbe stata una brutalizzazione dei sistemi fluviali che, ogni anno, ne rilasciano circa 20 gigatonnellate, come riporta un rapporto del marzo scorso, finanziato da un programma dell’Unione europea, Horizon. Ora che occorre produrre buon lavoro, luoghi nuovi da abitare in sicurezza, trasporti più razionali, il calcestruzzo dovrà scorrere. Ma forse non c’è abbastanza sabbia per tutti. E, non a caso, si teme che le «mafie della sabbia», già note nel continente indiano, possano mettere le mani su una risorsa considerata “cheap” e illimitata.

Il paradosso della svolta infrastrutturale è che, se non si aggiustano le prospettive, si potrebbe aggravare la crisi ambientale. L’estrazione intensiva della sabbia ha già dato prova di effetti gravi come la deviazione dei corsi d’acqua, alluvioni, erosioni delle rive, abbassamento del livello dei laghi e, ovviamente, perdita di specie animali selvatiche. Il fiume Mekong è già studiato come un caso scuola. Il fondo abbassato di un metro e mezzo nel tratto vietnamita, gli isolotti scomparsi in quello indonesiano preoccupano. E, forse non a caso, dovrebbe iniziare a mesi, fra le proteste, lo sfruttamento della sabbia del Duck, negli Usa. 450 chilometri di sistema fluviale dove vivono pesci unici e in via d’estinzione. Uno ha un nome in lingua Cheeroke che significa più o meno «pesce verdura». Sta nelle pozze stagnanti all’ombra della vegetazione ed è un gioiellino dell’adattamento della vita. I residenti e gli ambientalisti rinforzano gli argini delle pozze per proteggerlo, mentre i cercatori di sabbia sono quasi pronti a cominciare a sbancare. Una lotta per il fiume assai più decisiva di quanto si immagini.

di Chiara Graziani