«I Venturieri» di Carla Maria Russo

Muzio e l’invenzione
degli Sforza

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07 maggio 2021

A metà strada tra audaci capi militari e scaltri uomini d’affari, i capi delle compagnie di ventura furono protagonisti assoluti, tra fine xiv e prima metà del xv secolo, dei continui scontri armati che laceravano l’Italia del tempo. I Venturieri (Milano, Piemme, 2021, pagine 512, euro 19), come recita il titolo del poderoso lavoro di Carla Maria Russo, provenivano talvolta da una nobiltà minore, altrettanto spesso erano di origini modeste, si trattava soprattutto di uomini dotati di ambizione, forza e abilità nell’esercizio delle armi. È il caso di Giacomo Attendolo — Giacomuzzo noto col diminutivo Muzio — che incontriamo nelle prime pagine del romanzo poco più che un rozzo contadino. Il racconto di Russo prende le mosse da quando Muzio, in aperta ostilità con il padre e insofferente a una vita fatta solo di fatica e privazioni, grazie alla sua spregiudicatezza e alla voglia d’avventura, lascia Cotignola, piccolo borgo nel ravennate, e si arruola come mercenario nelle fila dell’esercito di Boldrino da Panicale. Giovanissimo guadagna ben presto la stima del più importante capitano del tempo, Alberico da Barbiano, venturiero della Compagnia di San Giorgio. Muzio è tenace, sempre pronto ad imbracciare le armi, a spronare i soldati, chiede a tutti di “sforzarsi”, usa questo termine così frequentemente da meritare il soprannome di “Sforza” che diventerà, in seguito, il suo nome legittimo: Muzio Attendolo Sforza. Con la precisione di un entomologo e il piglio sicuro della romanziera, Russo ci immerge in un affresco storico avvincente, sempre seguendo l’ascesa di Muzio, capostipite di quella che sarà una vera e propria dinastia col figlio Francesco marito di Bianca Maria, l’ultima dei Visconti, chiamato a furor di popolo a divenire signore di Milano dopo l’esperienza viscontea e la breve parentesi della Repubblica Ambrosiana. L’autrice, sempre attenta a una dettagliata documentazione storica, indaga tutti i personaggi, anche comprimari, nella sfera pubblica e privata, ne mostra senza fare sconti le crudeltà e il grande mecenatismo verso le arti, la natura spesso tracotante e superba, l’opportunismo politico, ma anche le pieghe più nascoste dell’animo come la fedeltà profonda di chi come Cicco Simonetta servì gli Sforza da segretario impeccabile, l’amore tenace di una vita come quello di Muzio Sforza per Lucia Terzani che non sposerà ma da cui avrà otto figli, tra cui il predestinato a succedergli, Francesco, o il temperamento crudele e arrogante di Giangaleazzo, causa prima del dolore e della fine precoce di Dorotea Gonzaga, vittima del suo sottrarsi ai patti matrimoniali. E, ancora, la saggezza di Bianca Maria Visconti che contribuì, alla morte dell’amato Francesco, a mantenere il ducato di Milano unito e compatto tanto da poter dire con orgoglio al figlio Giangaleazzo di rientro dalla Francia «vi consegniamo lo Stato nella stessa quiete e integrità che c’era vivendo Sua Eccellenza». Un racconto che si snoda attraverso più di un secolo fatto di splendori e sangue, di accese rivalità e grandi uomini, un tempo in cui la realpolitik determina nozze, alleanze, tradimenti ma che rese le corti italiane l’espressione più fulgida del Rinascimento.

di Giulia Alberico