«E poi saremo salvi» di Alessandra Carati

Le nostre vite divise

 Le nostre vite  divise  QUO-102
07 maggio 2021

È una notte del 1992 quando una bambina bosniaca di 6 anni e sua madre fuggono dalla mattanza che sta sconvolgendo la loro terra. La meta è la frontiera con l’Italia dove le aspetta il padre, che le porterà a Milano. Inizia così E poi saremo salvi (Milano, Mondadori, 2021, pagine 276, euro 18), splendido romanzo d’esordio di Alessandra Carati che vedrà quella bambina diventare adulta. In Italia nascerà il fratellino Ibro, e la vita scorrerà tra difficoltà e risultati, tra identità da costruire o ritrovare. E nulla, proprio nulla, sarà facile.

Come si cresce? Aida è sola, lo strappo obbligato ha scardinato non solo e non tanto lei, ma i genitori, e così la vita di tutti sarà sempre altrove. Altrove rispetto a Milano («“Cosa vi aspettate dall’Italia?”. “Di non crepare” ha risposto Fadil a bruciapelo. Mio padre si è fatto rosso in viso. “Mi aspetto di essere trattato come un cittadino” ha detto con i pugni stretti»). Ma altrove anche rispetto alla terra d’origine. Perché non ha senso un altrove che la guerra ha nel frattempo cancellato; perché un altrove non può essere un po’ qui e un po’ là («Eravamo “quelli che tornavano ma non restavano”»). Così la famiglia si consuma, tutti prigionieri di qualcosa che tenta di scorticarli vivi — per il padre è la rabbia, per la madre la tristezza, per lo zio il vino, per Ibro la malattia mentale. Per Aida, è il bisogno di avere il diritto di scegliere, di decidere il proprio posto nel mondo.

Un giorno il suo bisogno incontra quello di Emilia, una volontaria dolce e accogliente. Piano piano, inesorabilmente, Aida ne approfitta, divora le possibilità che la donna e suo marito possono offrirle, andando oltre la laurea in medicina («Volevo l’autorevolezza che il mestiere di medico ti può dare»): chiede di essere adottata. «Ho firmato tutte le pratiche alla svelta, quasi senza guardare. Sarei stata erede unica di Emilia e Franco. Ogni mia scelta era mescolata con i soldi, dall’inizio di tutto, e sarebbe stato inutile tentare di difendermi da questa realtà. Sentivo che mi spettava un risarcimento per la vita che mi era toccata in sorte e non importava da che parte arrivasse, ero pronta a prendermelo senza l’ombra di un senso di colpa». Ma è davvero Aida che si approfitta, o è forse la sua seconda casa — i nuovi genitori, il Paese — ad approfittarsi di lei e del suo bisogno?

C’è la guerra, nel romanzo di Carati. Quella guerra così vicina a noi, e così subito rimossa, che ha polverizzato un Paese, disintegrato nuclei («La nostra famiglia sparata in aria e dispersa dappertutto»); che ha ferito anche con la parola («Dopo la guerra, tutte le parole che sembravano serbe erano prese come una provocazione. [...] Mio padre [...] ogni volta rischiava di litigare con qualcuno. “Non voglio usare la lingua per schierarmi”»).

Ma oltre alla guerra, nel romanzo, ci sono le guerre — continue, quotidiane — perché essere esuli non è solo questione di terra («Sentivo di essere separata e la separazione scavava piano, in silenzio, una cavità e in quella cavità cresceva un’altra me, piccola, cieca, senza pelle»).

Crescere è una frattura? Crescere è tornare? Perché, anche qui, i ritorni possono essere tanti. È in tempo, ad esempio, Aida quando, richiamata dal disagio profondo del fratello, torna «nell’altra vita»?

Irrompendo, la schizofrenia paranoide che fa? «Guardavo Ibro e non vedevo il mio adorato fratello, vedevo il disordine pericoloso contro cui avevo pazientemente costruito un muro. (…) Voleva rimpastare quello che eravamo e quello che eravamo stati. Il suo disturbo era la faglia delle nostre vite divise tra un qui e un là».

È costruito su un continuo crinale, E poi saremo salvi. Fatto di un prima e di un poi, o forse di un prima e di tanti poi. Due terre, due famiglie, due vite, due dimensioni; la normalità e il disagio, la ricerca e la malattia mentale, il bisogno di risarcimento e l’impossibilità di averlo — il che però, per qualcuno almeno, potrebbe non precludere la salvezza. «Mi sono chiesta come si possa sopravvivere alla propria vita». Ma la risposta c’è.

di Giulia Galeotti