In «La pandemia del dolore e la speranza»

Una cura fatta di gesti

«Statuetta del Buon Pastore» (Museo Pio Cristiano,  Musei Vaticani)
05 maggio 2021

«Il vescovo tenga innanzi agli occhi l’esempio del buon Pastore, che è venuto non per essere servito ma per servire e dare la sua vita per le pecore. Preso di mezzo agli uomini e soggetto a debolezza, può benignamente compatire... Abbia cura di loro con la preghiera, la predicazione e ogni opera di carità» (Lumen gentium 27). Questa densa e splendida descrizione del vescovo, consegnataci dal concilio Vaticano ii , può offrire un’utile chiave di lettura per apprezzare il volume La pandemia del dolore e la speranza (Venezia, Marcianum, 2021, pagine 208, euro 16) che raccoglie i numerosi interventi con i quali monsignor Francesco Beschi, vescovo di Bergamo, si è rivolto ai fedeli della sua Chiesa diocesana, particolarmente martoriata dal terribile contagio del covid-19. Il primo testo è del 26 febbraio 2020 (mercoledì delle Ceneri), l’ultimo del 26 agosto (Pontificale di sant’Alessandro), cui si aggiunge l’omelia pronunciata nella Messa di Ringraziamento di fine anno.

I testi non sono organizzati secondo un ordine cronologico, ma raggruppati in cinque capitoli che rispecchiano altrettante tematiche: il dolore, la solitudine, il limite, la preghiera, la comunità. Temi centrali non soltanto per i credenti, ma per ogni persona che si interroga sul senso della vita e della morte, uomini e donne che ogni giorno sono chiamati a compiere difficili scelte etiche o a gestire complicati equilibri personali e familiari. Temi accostati con una levità non superficiale, una serietà non angosciante, una gioia non affettata.

Anche nel dramma che ha sconvolto l’esistenza di tante persone e comunità, monsignor Beschi tiene davanti a sé il volto del Buon Pastore, infinita misericordia e amore sconfinato. Pertanto corregge l’interpretazione di chi vorrebbe vedere nella malattia un «castigo di Dio»: essa è del tutto contraria a quel Dio che «ha rivelato se stesso nelle parole, nella vicenda, nella persona, nella morte e risurrezione di Gesù». Il Dio in cui crediamo «non nasconde il male, tanto meno lo giustifica o lo tollera, ma lo assume tutto su di sé per poterci riscattare dalla sua radice che è il peccato».

Il magistero del vescovo di Bergamo va al cuore della vita cristiana e si sofferma soprattutto sulla fede, la speranza e la carità che qualificano sempre la vita del credente, anche al di là della pandemia. La fede, anzitutto. Certo, «dentro la condizione di fragilità… non è facile aver fede, non è facile affidarsi. Non è facile aver fede e affidarsi a Dio». La fede non è qualcosa di ovvio, «non è un diamante che si custodisce in uno scrigno, da aprire ogni tanto per controllare che non sia stato rubato, ma è qualcosa di vivo… La fede non è mai scontata».

Grazie alla fede «la nostra vita non è consegnata al nulla… ma nelle mani di Dio, che quindi può dare energia, speranza, serenità, anche nella prova». La fede nel Signore crocifisso e risorto «accende la fiamma della speranza», la quale non è vago ottimismo, ma orientamento dello spirito e del cuore. Essa «è più forte della morte e non abbandona nemmeno coloro che sono morti. In Gesù crocifisso e risorto, nutriamo una speranza che è più forte della morte». Infine, la carità, che assume i volti della compassione, della cura amorevole gli uni per gli altri, sull’esempio della Vergine Maria: «Come Gesù ha indicato sulla croce a Giovanni nei confronti di Maria e a Maria nei confronti di Giovanni. Prendiamoci cura gli uni degli altri… una cura fatta di gesti, di aiuti, di vicinanza, di parole che possono consolare».

Oltre alla Madre di Dio, la Vergine Addolorata, in questo difficile cammino i santi sono le nostre guide sicure, specialmente i santi cari alla terra bergamasca, dal patrono, il martire Alessandro, a Giovanni xxiii . Fiducioso nella loro amichevole intercessione, il vescovo prega e invita i credenti alla preghiera, in varie forme: dalla supplica al ringraziamento, dalla celebrazione dell’Eucaristia alla recita del Rosario al suffragio per i fedeli defunti. Avverte che «le nostre preghiere non sono formule magiche» e «nessuno pensa che questa preghiera da un giorno all’altro faccia scomparire il virus dalle nostre vie, dalle nostre case, dalle nostre comunità».

«La fede in Dio non risolve magicamente i nostri problemi, piuttosto dà una forza interiore per esercitare quell’impegno che, in modi diversi, siamo chiamati a vivere». Compito della preghiera è proprio «alimentare una relazione e una speranza».

Non mancano riferimenti letterari, sobri, da Manzoni a Dostoevskij, da García Márquez a Erri De Luca, da Enzo Biagi a Ennio Flaiano, ma anche a uomini di cultura e di scienza, come Havel e Einstein, quasi a ricordare che spesso si trovano tracce di sapienza evangelica anche al di fuori dei confini ecclesiali. Monsignor Beschi però non dispensa il suo insegnamento dall’alto di una cattedra, ma con l’umiltà di chi non dà nulla per scontato e condivide totalmente con il suo popolo una fede messa alla prova, assalita dal dubbio, minacciata dalla tentazione. «Anche il discepolo è esposto alle tentazioni cui è stato esposto Gesù: non sono semplicemente quelle che esprimono la nostra fragilità e le nostre debolezze, ma quelle che mettono alla prova la nostra fede e il modo stesso di essere cristiani, discepoli di Gesù».

Da queste pagine traspare l’amore di un pastore per la sua Chiesa, un amore connotato dallo stile semplice e cordiale, che privilegia i rapporti umani, perché «la Chiesa assomiglia tanto a una famiglia, perché le persone e le relazioni nella comunità cristiana sono decisive». Una Chiesa «corpo, non corporazione», fatta di «volti, storie, peccati e virtù, mani e piedi, sguardi e ascolto».

di Ezio Bolis