Un Hemingway inglese

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05 maggio 2021

«Architettava strutture narrative mai banali, scriveva dialoghi da dio, scolpiva personaggi spesso indimenticabili, distribuiva umorismo e tragedia con la precisione di un farmacista. Ci sapeva fare. Un Hemingway senza dannazione, mi verrebbe da dire: forse più consapevole (...) un Hemingway inglese». Il fan di Graham Greene che sta parlando del suo beniamino è Alessandro Baricco, in una nota — intitolata Pellegrinaggio al cuore degli uomini — che accompagna la bella riedizione Sellerio di Il console onorario (Palermo, 2019, pagine 442, euro 15, traduzione di Alessandro Carrera) arricchita da una post fazione di Domenico Scarpa che si sofferma a lungo a riflettere sull’epigrafe di Thomas Hardy in esergo al libro.

La gratitudine, nel testo di Baricco, ha una motivazione più profonda dello stupore di fronte alla perizia tecnica di un collega, non nasce dalla semplice ammirazione per uno scrittore che sa nascondere bene tra le righe i segreti del mestiere fino a rendersi pressoché invisibile. Quello che colpisce di più lo scrittore torinese è l’effetto terapeutico della prosa di Greene.

«Faceva, lui, una letteratura ideale per quell’indolenza dell’anima che a volte prende — scrive Baricco — la curava con una prosa a cui tu, lettore, non dovevi proprio aggiungere niente, ci pensava lui, da maestro, tu non dovevi fare altro che andare. Né, per questo, ti restava quel sapore amaro di evasione pura e semplice e disperata e deprimente: perché in ogni pagina Greene ti tiene attaccato alla dignità del leggere — gesto di costruzione e non di perdizione — sempre pretendendo un’attenzione vigile, un passo accurato e una posizione, per così dire, composta».

Una “serietà” di fronte al lettore, un profondo rispetto per la complessità della sua esperienza, allergico a ogni schema preconfezionato o semplificazioni manichea che emerge a ogni riga.

«Anche quando il suo talento per il thriller lo portava a pagine infiammate dalla febbre dell’azione, del disvelamento, della suspence — anche in quelle pagine lui era compassato, cortese, elegante. Non ti trattava come un tossico bisognoso della sua dose di colpi di scena, ma come un viaggiatore che si augurasse, al di là della curva, la delizia di un paesaggio nuovo: lui te la offriva, puntualmente, e in questo c’era qualcosa del maggiordomo, ma anche del burattinaio, e perfino del sacerdote».

Una strana dolcezza, mai sentimentale (anzi, spesso ostaggio del limite opposto, quella istintiva ripugnanza verso ogni emozione esibita che connota, tradizionalmente, l’english way of life) che ha la sua origine in una sorgente misteriosa.

«Aveva questa anomalia di essere cattolico — continua Baricco — di per sé una cosa piuttosto consueta, ma non tra gli scrittori inglesi e, come prima di lui Chesterton, se la tenne sempre ben stampata sul volto — come una forma di esibito strabismo».

Uno strabismo “metafisico” come quello delle icone di Gesù in cui il Salvatore del mondo ha un occhio che giudica un occhio che perdona, e fissa chi lo guarda con severa dolcezza. Occhi divoranti, all demanding, come scrive Flannery O’Connor nel bellissimo racconto La schiena di Parker, parlando di un’icona bizantina tatuata sulla schiena del protagonista, occhi che chiedono tutto e non lasciano tregua a chi li ha incrociati anche solo per caso. È questo, probabilmente, il segreto della costante tenerezza dello scrittore inglese per i suoi personaggi.

«Greene li accompagna per le rapide e poi fino all’orlo della cascata, tenendoli a galla grazie alla sua prosa accogliente e cristallina. Li tratta con cura, tutti li ama, non santifica nessuno. Compagni di viaggio. Aveva un suo pellegrinaggio da compiere, probabilmente al cuore degli umani, e dovunque sia stato ha preso nota, nell’intento di passarci poi qualche utile indiscrezione su quello che c’era da aspettarsi, nel seguire la sua stessa via. Sapeva che avremmo consultato le sue note in momenti di relativo disincanto, o vero e proprio smarrimento: le scrisse allora in modo che ci fossero accoglienti e di conforto, cosa di cui per sempre gli saremo grati».

Se è vero, come è vero, che gli scrittori sono le spie della vita, gli 007 non degli Stati ma delle persone (Antonio D’Orrico) Greene fu agente segreto di Sua Maestà Britannica, ma lo fu anche per conto dell’umanità in romanzi, al bivio tra ironia e tragedia. Lasciandosi guidare dalle sue ossessioni, “usa” il suo peccato, scruta il mondo dal basso delle sue cadute per regalarci uno sguardo fresco, autentico, su tutto quello che descrive. E per condividere con noi il suo talento nello scoprire «la bellezza — scrive Mario Soldati — una bellezza davvero esistente e non immaginaria, di ciò che tutti, per convenzione, credono e chiamano brutto, storto, sgradevole».

di Silvia Guidi