Un libro appena edito riscatta lo scienziato da ingiuste denigrazioni

Fu Galileo Galilei
a indicare la via a Cartesio

Galileo Galilei in un ritratto di Justus Sustermans (XVII secolo)
05 maggio 2021

La fama legata al nome di Galileo non fu confinata all’ambito scientifico e filosofico del suo tempo, ma si estese fino ad investire la dimensione politica e religiosa. Subito dopo la sua morte (1642), la sua figura assurse a simbolo della libertà di pensiero nel segno della ricerca, paziente e metodica, della verità. Contribuì, e non poco, ad affermare questo scenario la condanna (22 giugno 1633) del fisico ed astronomo toscano da parte dell’Inquisizione, che lo costrinse all’abiura.

All’eredità, sempre rinnovantesi del pensiero di Galileo è dedicato il bellissimo volume della Biblioteca Galilaeana The Science and Myth of Galileo Between the Seventeenth and Nineteenth Centuries in Europe, a cura di Massimo Bucciantini (Firenze, Leo. S. Olschki Editore, 2021, pagine 502, euro 52) che raccoglie gli atti della conferenza internazionale svoltasi a Firenze dal 29 al 31 gennaio 2020.

Come sottolinea Bucciantini nella prefazione, fino alla fine del diciottesimo secolo Galileo era annoverato tra le figure appartenenti al «pantheon dei martiri della libertà», ed il suo nome era associato a quello di Giordano Bruno quale simbolo del coraggio e dell’opposizione ad ogni forma di intolleranza.

Nella storia della fortuna di Galileo, rileva nel suo contributo Ferdinando Abbri, si sono alternate celebrazioni entusiastiche e denigrazioni insidiose, e queste ultime sono state spesso «mascherate attraverso la sottolineatura degli errori scientifici galileiani che costituirebbero la legittimazione del suo tragico destino, della sua condanna».

In vari momenti storici e diversi contesti culturali si sono affermate immagini contrastanti dello scienziato pisano, la cui costruzione è il risultato di filosofie ed ideologie dominanti: la reazione illuministica, di matrice spiritualista, arrivò a coinvolgere — scrive Abbri — gli artefici della modernità, ai quali venne rimproverato di aver “distrutto” un mondo medievale, più immaginato che reale, nel quale teologia, filosofia e scienza si erano sviluppate in uno stato di compiuta armonia. A partire dalla spedizione di Carlo viii del 1494, l’Italia conobbe un lungo periodo di sudditanza politica e militare che alimentò la frustrante sensazione di essere entrata in un’età di decadenza. Con la civiltà del Rinascimento si poté comunque vantare la supremazia letteraria e artistica. Senonché poi, quando la cultura nazionale emerse dalla stagione del Barocco e si affermò la reazione classistica dell’Arcadia, non si ebbero più ragioni fondate per difendere la letteratura del concettismo e delle argutezze, giudicata futile nei suoi caratteri iperbolici. Allora ad essere celebrate furono soprattutto le scoperte e le invenzioni recate dalle scienze della natura, spostando in questa direzione l’asse delle rivendicazioni italiane. A tale proposito va ricordato che già al principio del Settecento, prima ancora dell’affermazione dell’Illuminismo, l’erudito pugliese Giacinto Gimma pubblicò l’opera Idea della storia d’Italia letterata, scritta con il dichiarato obiettivo di «mostrare le glorie della nostra Nazione».

In questo clima di rivalsa fondata su una supremazia culturale goduta in un passato glorioso, Galileo — osserva Andrea Battistini — fu facilmente assunto a paradigma tra i più rappresentativi della grandezza italica. Nel suo contributo Battistini cita una valutazione di Giuseppe Galasso che nel Mito e storia di Galileo nel Mezzogiorno scrive: «Soprattutto a partire dagli anni ’20 del secolo xviii il nome di Galileo comincia a figurare sempre più spesso nella serie di quelli che vengono addotti a dimostrazione della tradizione e delle glorie italiane nelle scienze, in particolare, e nella cultura in generale».

E fu proprio in quel lasso di tempo che avvenne una ripresa della pubblicazione delle opere galileiane. Nel 1710 era stato riedito a Napoli il Dialogo sopra i due massimi sistemi e nel 1718 erano usciti, a Firenze, tre tomi di Opere galileiane, anche se prive del “Dialogo” incriminato. Evidentemente, nota Battistini, queste sia pur timide aperture autorizzarono le personalità del mondo della cultura ad includere anche il nome di Galileo, ancorché costretto all’abiura, tra i grandi uomini che l’Italia poteva vantare dinanzi all’Europa, specie sull’abbrivio degli anni in cui la querelle des anciens et des moderns si era convertita in una contesa tra l’Italia, arroccata nella difesa delle proprie glorie d’antan, e la Francia, che ambiva a porsi quale vera e più legittima erede dell’età di Augusto, emancipandosi da ogni possibile debito con la cultura italiana, alla quale anzi intendeva sottrarre il privilegio di essere considerata la degna discendente della civiltà classica.

Basti pensare che nel Discours préliminaire d’Alembert, con l’obiettivo di delineare la catena dei principaux génies que l’esprit human doit regarder comme ses maitres considerava in sequenza Bacone, Cartesio, Huygens, Newton, Locke. In subordine, tra coloro che non possedettero doti aussi grandes que ceux dont nous venons de faire mention compariva il nome di Galileo, privato nell’Encyclopédie di un lemma specifico. D’ora in poi, sottolinea Battistini, le proteste per questo “scandaloso declassamento” di Galileo non si contano. Furono formulate in privato, come fece Bernardo Tanucci in una lettera a Ferdinando Galiani, dispiacendosi che d’Alembert non avesse citato Galileo nell’Essai sur les éléments de la philosophie. E le proteste furono elevate pubblicamente, come nel caso di Algarotti, che nei Pensieri diversi si diceva «scandalizzato» che nella «tanto celebre e tanto dotta prefazione dell’Encyclopédie si mettono in certo modo in cielo gli errori di Cartesio… e del Galilei, il quale mediante i suoi teoremi dell’accelerazione dei gravi e del moto dei proietti è il fondatore della buona Filosofia, e dell’Astronomia fisica, se nel parla come di uno che ha giovato alla Geografia, e si mette nella folla e quasi nella plebe dei Filosofi».

E la dose Algarotti la rincarò nel Saggio sopra Cartesio in cui afferma che lo scienziato francese «ha seguito il metodo» indicato da Galileo, il quale con il suo esempio gli ha insegnato ad essere «niente corrivo ad asserire, nemico giurato delle ipotesi, modesto e paziente trovatore, mercé gli aiuti sperimentali e geometrici della dottrina del moto, chiamata la chiave della natura, che mediante le celesti sue osservazioni ne ha descritto la vera mappa dello Universo».

di Gabriele Nicolò