Le trasposizioni cinematografiche dei libri più famosi dello scrittore

Belli, bellissimi o brutti
ma sempre infedeli

 Belli, bellissimi o brutti  ma sempre infedeli  QUO-100
05 maggio 2021

Graham Greene fece il critico cinematografico per circa cinque anni, dal 1935 al 1940. In tale ruolo vide e recensì centinaia di pellicole, sottolineando, cosa del tutto insolita nella critica inglese di allora, che era il regista il creatore del film e che il montaggio era il momento decisivo della creazione (non a caso aveva letto con molta attenzione il libro di Pudovkin sull’argomento). Ben prima, però, il cinema era stato il punto di riferimento per il suo lavoro di romanziere. Greene fu uno dei primi tra gli intellettuali inglesi a capire che il cinema poteva essere una forma d’arte e che il suo linguaggio, sia che si trattasse di La madre e La febbre dell’oro, sia che si trattasse di buoni film hollywoodiani, era un linguaggio di assoluta modernità.

Nei suoi romanzi, già a partire da Il treno per Istanbul (che è del 1932), è evidente il modo con cui Greene attinge al linguaggio cinematografico, ad esempio nell’alternare quello che in un film sarebbe un primo piano a un campo lungo. E poi è anche probabile che nello scrivere un romanzo Greene pensasse al cinema procedendo in modo tale da lasciare aperta la possibilità di un suo adattamento cinematografico — cosa che gli fu talvolta rimproverata come offesa al “nobile” lavoro del romanziere.

Ma anche un romanziere, come lui che si era licenziato dal «Times» per dedicarsi al lavoro di scrittore, poteva avere il problema di come sbarcare il lunario. Greene raccontò con sincerità che i compensi (per quanto modesti) ricevuti per l’adattamento del Treno per Istanbul e qualche anno dopo per Una pistola in vendita, furono una manna dal cielo. Così come fu d’aiuto il suo lavoro di sceneggiatore cinematografico per un mediocre film tratto da un racconto di Galsworthy e per un altro film ancora più deludente, Al pappagallo verde. Il fatto è, spiegava Greene, che la sceneggiatura, una volta che è nelle mani del produttore e del regista può essere fatta a pezzi per le più diverse ragioni di natura filmica o di carattere pratico. Come accadde, ad esempio, alla sceneggiatura che scrisse per l’adattamento cinematografico del suo romanzo Brighton Rock.

Non fu così per le sceneggiature dei film diretti (e prodotti, cosa assai importante) da Carol Reed: L’idolo infranto, tratto da un suo racconto (La stanza nel seminterrato), Il terzo uomo, di cui scrisse soggetto e sceneggiatura, e Il nostro agente all’Avana, basato su quello che forse è il più popolare dei suoi romanzi. Non a caso sono i film greeniani più belli.

E un bel film, ingiustamente sottovalutato, è anche La mano dello straniero, di cui fu regista Mario Soldati, del quale, come di Reed, Greene era amico: suo era il soggetto, mentre alla sceneggiatura collaborò Giorgio Bassani.

Greene non nascose mai la sua gratitudine (parole sue) per il cinema. Ma non nascose neppure la sua delusione (a volte la sua indignazione) per come il film può stravolgere una sceneggiatura. In una dichiarazione pubblicata sull’«International Film Annual» del 1958 Greene disse che per uno scrittore la cosa migliore è vendere “un romanzo completamente”, perché in tal modo non si accetta nessuna responsabilità su ciò che verrà fuori nel film da cui è tratto. Naturalmente, in questo caso, l’autore del romanzo è libero di dare i giudizi più negativi e sprezzanti sulla versione approdata sullo schermo. È questo è ancor più vero quando al film tratto da un proprio lavoro l’autore non ha collaborato come sceneggiatore.

I due casi che, giustamente, più lo fecero infuriare furono gli adattamenti dei romanzi Il potere e la gloria e L’americano tranquillo. Il primo, che racconta la storia di un prete messicano alcolizzato con un figlio illegittimo che resta fedele alla sua vocazione, pur tra dubbi e incertezze, durante la persecuzione religiosa in Messico nei primi anni Trenta, nel film diretto da John Ford divenne la storia di un prete pio ed eroico: nessuna traccia di alcool o di figli illegittimi — persino il titolo fu cambiato, The Fugitive in inglese, La Croce di fuoco in italiano.

Un cambiamento — un tradimento, è il caso di dire — ancora più clamoroso fu la versione americana di L’americano tranquillo: la spia della Cia che nella fase finale della guerra di Indocina, l’attuale Vietnam, poco prima della sconfitta dei francesi, fornisce l’esplosivo a un locale signore della guerra per compiere un attentato da attribuire ai guerriglieri comunisti che combattono contro la Francia, diventa il paladino della libertà, mentre l’attentato è compiuto dai comunisti. Il film costituisce un rovesciamento sfacciato dello spirito e del senso del romanzo, che a ragione è stato in seguito considerato quasi profetico nell’anticipare ciò che sarebbe poi accaduto nel martoriato Vietnam.

Anche quasi tutti gli altri film tratti dai romanzi di Greene sono deludenti. Non In viaggio con la zia di George Cukor. Sebbene il finale cambiato sia stato fortemente criticato (con qualche buona ragione) da Greene, il film è una deliziosa riscrittura del romanzo. Cukor, scrisse Goffredo Fofi, «riconduce il tutto sul proprio terreno, che è quello della commedia sentimentale e sofisticata, con una perfetta resa d’insieme» che si è tradotta in «un film calibrato, delicato, spiritoso, con una lievità cui non si era più abituati». Il cinema gli diede da vivere; e da un certo momento in poi agiatamente. Greene ringraziò; ma allo stesso tempo prese sempre le distanze dal “prodotto finito”.

Da uno dei suoi romanzi più importanti e più complessi, Il nocciolo della questione, il regista O’Ferrall trasse un pessimo film. Dopo avere visto il montaggio, per quanto ancora provvisorio, chiese che nei titoli si dovesse scrivere «basato su una storia di Graham Greene»; e non «tratto da Il nocciolo della questione». Chissà se gli fecero sapere che nella versione italiana il titolo del film diventò L’incubo dei Mau Mau. Era un argomento di attualità, si giustificò il produttore. E la storia originale fu cambiata attraverso il doppiaggio. Un vero e proprio miracolo all’italiana.

di Paolo Bertinetti