Certo è che ha appassionato tutti

Una meteora?

Napoleone ritratto da Paul Delaroche (1807)
04 maggio 2021

«La guerra non era più dunque il nobile e universale slancio di anime assetate di gloria, com’egli si era immaginato leggendo i proclami di Napoleone». Ci voleva uno come Marie-Henri Beyle, meglio noto come Stendhal, che di campagne militari napoleoniche se ne intendeva — qui scrive di Waterloo — per averne fatto parte, per dire tutta la verità su quella «storia seduta sul cavallo» di Hegel di cui diremo tra poco, che nel bene e nel male quella storia l’aveva fatta.

Quando il console francese presso lo Stato Pontificio a Civitavecchia scrive, in pochissimo tempo, La Certosa di Parma, che uscirà nel 1838, ormai la meteora era passata, magari non finendo nel dimenticatoio come aveva poco elegantemente pronosticato Leopardi il 2 aprile del 1827 nello Zibaldone: «Questo (Napoleone, ndr) sarà uno dei molti, si perderà tra la folla». Il fatto è che Giacomo aveva di fronte a sé un duplice ingombro, quello della storia e quello del mito, e stava facendo uno scomodo paragone, tra il Bonaparte e Achille, che «sovrasterà, per esser montato in alto assai prima».

In realtà, il generale còrso nella storia rimarrà, e come è possibile constatare ora grazie anche al libro di Matteo Palumbo Ei fu. Vita letteraria di Napoleone da Foscolo a Gadda (Roma, Salerno Editrice, 2021, pagine 94, euro 9,90), il mito greco rimane un punto di riferimento, perché se ne servirà anche Monti, che lo paragonerà soprattutto a Prometeo oltre che al Pelide.

L’Ode a Bonaparte liberatore di Foscolo aggiunge all’Ellade la storia romana, e qui è possibile contemplare nel loro svolgimento tutte le contraddizioni della stagione napoleonica, perché fanno la loro apparizione le figure di Cesare, ma anche di Bruto e degli altri congiurati. Cesare aveva incarnato le speranze in una Roma nuova pur nella continuità con la stagione repubblicana (qualsiasi riferimento a Napoleone è giustificato), ma aveva tradito quelle aspettative, e i cesaricidi erano innalzati come i necessari fautori del ritorno agli ideali di quella repubblica.

Perché Foscolo stava vivendo sulla sua pelle quello che Nietzsche, cinquant’anni dopo, avrebbe chiamato l’eterno ritorno, vale a dire la trasformazione del liberatore dalla tirannia in despota e traditore degli ideali di libertà e uguaglianza del 1789. E in restauratore di quella stessa tirannia. Nel cuore e nella mente di un poeta greco per nascita si faceva largo la fatalità di quella — anche lei greca — Ananke, la necessità: per poter conservare la rivoluzione, ecco il compito funesto di combattere i suoi nemici anche con il terrore e l’abolizione della libertà.

Era accaduto con un altro personaggio che era stato paragonato a Bonaparte, Alessandro Magno, era accaduto con Robespierre, accadrà con Lenin, ma Foscolo non farà in tempo a constatarlo, con Stalin, con Mao e molti altri.

Il trattato di Campoformio, con la cessione da parte di Napoleone di Venezia agli Austriaci, sarà un duro colpo per Foscolo, dilaniato dalla necessità di combattere contro il vecchio e dalla tentazione di incarnare un’altra necessità, quella dell’uccisione, avrebbe sentenziato poi Freud, del padre-tiranno.

E le Ultime lettere di Jacopo Ortis sono in realtà la rappresentazione di quel dilemma. Ma il libro di Palumbo si limita agli italiani. E fuori d’Italia? Anche oltralpe la letteratura — e la filosofia — guardano a Napoleone con la complessità che scaturiva da un erede dell’egualitarismo rivoluzionario diventato imperatore. Lo stesso Hegel la prende un po’ sul serio e un po’ sulla battuta fulminante, quando scrive nella celebre — anche se un po’ troppo sintetizzata — lettera al filosofo Niethammer il 13 ottobre, dopo la battaglia di Jena: «Ho visto l’imperatore, quest’anima del mondo uscire dalla città per andare in ricognizione. È una sensazione meravigliosa vedere un tale individuo che qui, concentrato in un punto, seduto su un cavallo, si irradia sul mondo e lo domina». Ma d’altronde, lo abbiamo visto, lo stesso bonapartista Stendhal ci presenta Waterloo come un incomprensibile campo di scontri isolati, furti tra stessi commilitoni, anarchia pressoché totale.

Solo Holderlin gli restituisce una sorta di divina predestinazione nel frammento lirico dedicato sin dal titolo a Bonaparte in cui lo straniero («sul Reno germanico / non egli crebbe») viene visto in una dimensione quasi provvidenziale. Anche perché altri che lo prendono un po’ più sul serio, come il Manzoni del Cinque Maggio e il Tolstoj di Guerra e pace tentano la carta dello sprofondamento negli abissi della coscienza di un uomo che aveva visto tutto e tutto dominato: il russo lo immagina mentre si chiede il perché di tanti morti e agonizzanti a Borodino, e il Gran Lombardo lo coglie nella riflessione sulla fine del proprio mito e sulla caducità delle umane cose.

Sarà pure stata una meteora, ma ha appassionato tutti: da Beethoven in musica a David e Gros nell’arte, e, i puristi ci perdonino, non solo nella cultura alta, ma anche nei juke-box d’un tempo: basta chiedere a Kinks, Abba, Bee Gees. E sono solo pochi esempi.

di Marco Testi