«L’ultima estate» di Marcello Filotei, usato nei corsi di scrittura per l’equilibrio tra ironia e dolore

Un’auto rossa troppo ferma

Pescara del Tronto, il 24 agosto (ANSA/CLAUDIO ACCOGLI)
04 maggio 2021

«C’era una volta una piccola comunità — si legge nella prefazione a L’ultima estate. Memorie di un mondo che non c’è più del nostro collega Marcello Filotei (Fas, 2019) — un grappolo di case arrampicato nel cuore di una strettissima valle, in un modo inimmaginabile ora, quando ormai la natura si è ripresa la terra, cancellando tutto il resto». L’ultima estate è ambientato a Pescara del Tronto, «un comune che continuava a esistere all’insaputa dell’universo» prima di essere spazzato via dal terremoto. Un disastro che «ha riportato tutti da un’epoca indefinita, che esisteva solo in quel luogo esatto, al 24 agosto 2016 alle ore 3.36, quando il continuum spazio-temporale di Pdt si è riallineato con quello del resto dell’universo».

Non è facile raccontare una storia così straziante; il terremoto si è portato via i genitori, Marino e Ada, e ha ferito gravemente sua sorella Alexandra (attrice di teatro, cinema e cabaret, nel cuore di chiunque abbia visto Un medico in famiglia o Boris, la parodia delle serie tv italiane diventata un cult) rimasta 9 ore sotto le macerie. È talmente difficile maneggiare del materiale narrativo scottante come un lutto (personale e collettivo) che L’ultima estate è già stato usato più volte nei corsi di scrittura come un modello a cui ispirarsi, per l’equilibrio con cui l’ironia controbilancia il dolore e la levità con cui la prosa scivola sulla tenerezza senza mai sfiorare il lamento.

Pescara del Tronto, alias Pdt «era un paradosso fisico (...) Dal 24 agosto però l’universo ha recuperato la sua coerenza, la regola generale ha prevalso, il tempo ha ricominciato a scorrere regolarmente». Dal tempo immobile di Pdt, dove il fotografo del paese ha un occhio solo e il triangolo di erba del parchetto fa da improbabile scenario romantico ai flirt fra ragazzini, emerge un ritratto dei “genitori da giovani” tanto essenziale quanto commovente. Ada «faceva finta di stare seduta per caso su un muretto al margine di una strada dove passava una millecento. Erano poche le millecento e una la guidava papà. Passava, la guardava, la amava, glielo diceva spesso però si fermava poche volte perché era troppo impegnato a lavorare». La cosa, spiega l’autore, «si è ripetuta per i sei decenni successivi: passava, ci guardava, ci amava, ce lo diceva spesso e si fermava poco. Però non aveva più la millecento, era passato a cilindrate superiori, molto superiori. Amava le macchine veloci e le comprava anche se avevano solo due posti e lui aveva due figli. Io e mia sorella comunque in qualche modo ci entravamo, e la sera al ritorno da qualche cena ci dormivamo anche comodi. L’ultima macchina veloce che ha comprato è stata ferma per un anno sulla piazza di Pdt, rossa come sempre, così ferma che si vedeva perfettamente sulle foto e sui filmati di tutti i telegiornali. La millecento invece non si fermava mai, tranne una volta per far salire mamma (...). È successo tutto in fretta, un paio d’anni dopo mi sono ritrovato a piangere a Pdt in braccio a una quasi ventenne che voleva assomigliare a Mina e continuava a vestirsi come la Carrà».

di Silvia Guidi