Storie di vite (immaginarie)

Parole per resistere

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04 maggio 2021

Marco Annicchiarico racconta sua madre


«In questi ultimi anni ho scoperto che mia madre è andata a scuola con Kevin Spacey, giocava a campana con Claudio Baglioni e Rita Pavone, ha studiato insieme a Totò, ha detto di no alla proposta di matrimonio di Enrico Musiani e ha fatto da madrina a Massimo Troisi». A parlare è Marco Annicchiarico, classe 1973, autore e caregiver che, dalla sua casa di Milano, con delicatezza ci racconta di sua madre, Lucia, a cui nel 2014 è stato diagnosticato il morbo di Alzheimer. Da allora tutto è cambiato e la donna, 84 anni a dicembre, ha iniziato a descrivere fatti e storie come «se la realtà non fosse quella intorno, ma quella che uno si racconta».

Spinto dunque dalla necessità di affrontare la malattia della mamma — così come pure quella di suo padre Sebastiano che, nello stesso periodo in cui Lucia peggiora, scopre di avere un adenocarcinoma — Annicchiarico si mette a scrivere. I suoi testi sono dapprima pubblicati sul sito letterario «Poetarum Silva», all’interno del quale, a partire dal 2017, nasce la rubrica «Caregiver whisper. Storie di ordinario Alzheimer» e poi, quando l’esperienza viene conclusa nel 2020, direttamente sulle sue pagine social, dove tuttora è possibile rintracciare questi frammenti di memoria.

«Prima della nascita della rubrica — dice Marco Annicchiarico — ero solito registrare le conversazioni dei miei genitori: mio padre aveva preso a raccontare episodi della giovinezza e mi sarebbe piaciuto, in futuro, riascoltarli, possedere dei ricordi. Poi, però, alle parole di mio padre si sono anche aggiunti i deliri e le allucinazioni di mia madre e così, su consiglio della sua neurologa e, tra gli altri, degli amici del sito letterario, ho iniziato a rendere noto quanto scrivevo. È stato un modo, e scrivere continua a esserlo, come dice Annie Ernaux, per ritrovare i miei genitori, per ritrovare Lucia, per ricomporre il dialogo interrotto tra me e lei».

Così nei testi (alcuni pubblicati sulla rivista «Mind»), dei veri e propri atti d’amore, si guarda in faccia con coraggio la vita. Si può anzi affermare che nei racconti del figlio di Lucia si ritrovi la vita stessa: i momenti di dolore e di calma, la morte di Sebastiano o il matrimonio di Marco fanno parte di una quotidianità filtrata sì dalla malattia, ma da cui emergono la dolcezza e l’ironia che Lucia non ha perso. Perché, è vero, si possono perdere i nomi e le parole, non i sentimenti.

«Credo che la malattia, tralasciando altri aspetti che la riguardano, mi abbia permesso di conoscere realmente mio padre e mia madre, di conoscerli come persone e non più come meri genitori — prosegue Annicchiarico — Prima di essa, non mi ero mai chiesto come avessero vissuto alla mia età, dopodiché l’ho fatto e ho scoperto due giovani, i loro sogni, le loro ambizioni, le loro paure. Mi sono riconosciuto».

La riscoperta, pertanto, della propria identità e soprattutto di una madre. Di una madre che parla con se stessa allo specchio, ma che nello specchio intravede «un’amica che descrive come simpatica e assai più vecchia». Lucia è infatti “intrappolata” nei suoi 18 anni, in quell’eterna giovinezza che fa in modo che il rapporto col figlio si inverta. Chi si prende cura di chi? Chi è l’adulto e chi il bambino? Ecco che mentre si disgrega la cronologia del tempo Lucia si chiede: «I giorni che ci hanno preso dove sono andati?». Il figlio conosce la risposta: «La demenza ci ha sottratto qualcosa di importante, ma ci ha donato un legame più forte».

Le storie di Marco e Lucia hanno inoltre portata universale. «I nostri racconti — dice ancora Annicchiarico — sono d’aiuto a molti. In tantissimi, nella stessa situazione o in situazioni diverse, ad esempio i genitori di bambini con autismo, mi scrivono per condividere quanto vivono. È un modo per combattere la solitudine, l’indifferenza, l’abbandono in cui si trova il “curacaro”. A volte — continua — non si sa a chi chiedere informazioni e consigli, ci si imbatte in assistenti sociali o altri professionisti che ti dicono che loro non sono dei call center o sottolineano quanto tua madre costi al sistema».

Perciò le parole diventano importantissime. Per resistere, per cambiare le cose. «E per denunciare ciò che manca», afferma Annicchiarico che a Milano ha pure dato vita all’associazione Gli smemorati di via Padova, grazie a cui, prima della pandemia, alle persone con Alzheimer o altra sindrome neurodegenerativa si offrivano servizi capaci di fargli rivivere appieno il quartiere. Annicchiarico, habitué dell’AlzheimerFest (due anni fa, a Treviso, ha gestito il tendone sui “curacari”) e attualmente al lavoro su un romanzo ispirato ai suoi racconti, non edulcora la situazione: «Ci sono tante cose che non vanno. Tra tutte, la mancata formazione dei caregiver, che dalle istituzioni vengono lasciati allo sbando, senza tutele, senza diritti: in Italia il 66 per cento di “curacari” abbandona il lavoro per l’assistenza al malato; se poi la formazione ci fosse, così come avviene in Giappone, si potrebbe pure aiutarli a riconoscere i primi segnali della malattia, considerando che nel nostro Paese si impiegano 1,6 anni per la diagnosi».

Ebbene, nelle storie, l’amarezza, la malinconia, l’amore e la forza, su tutto, di sorridere. Con Lucia, del resto, non può essere altrimenti e questo stralcio di testo, tra immaginazione e invenzione, lo dimostra: «Mia madre mi racconta di quando Lucio Dalla andava a imparare il mestiere di sarto da mia nonna, commentando: “Anche se poi ha fatto quello che ha fatto, è lo stesso una brava persona”. “Scusa, e cosa ha fatto?”, chiedo. “Come non lo sai? Alla fine si è messo a cantare”».

di Enrica Riera