Maisam: storia
di una pietra scartata

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04 maggio 2021

Quando ho conosciuto Maisam lui era amico di alcuni ragazzi afghani che ospitavo ogni settimana a casa mia per prepararli all’esame di terza media.

Aveva preso la licenza l’anno prima ma voleva partecipare agli incontri, con Zamin, Hassan, Alì, come uditore perché sapeva di non essere ancora in grado di scrivere bene in italiano.

Erano mattinate allegre, vivaci, piene di voci. Poi pranzavamo tutti insieme e nel primo pomeriggio andavano via.

Maisam, come gli altri, aveva una storia di fuga dal suo Paese, di perdita di contatti con i familiari, un po’ di mesi di detenzione in Grecia, poi un’altra fuga e, nascosto in un tir, l’arrivo in Italia. A Roma mesi di vita di strada al binario 15 della stazione Ostiense, aiuti dal Centro Astalli e da varie associazioni di volontariato, infine un lavoretto semiregolare a Ostia e insieme ad amici una casa in affitto, in nero.

Era vicino alla maggiore età, sempre ottimista e di buon umore, si era iscritto intanto a un corso regionale di ristorazione.

Intorno al grande tavolo dove con Zamin, Alì e Hassan facevamo i nostri esercizi di lingua e soprattutto educazione civica e geografia, sedeva pure lui e compilava i suoi compiti: stilare menù, calcolare prezzi, quantitativi dei cibi, ricette.

Superati gli esami di terza media i ragazzi presero le loro strade, andando a cercare lavoro anche fuori regione. Maisam continuò a tenersi in contatto con me e la mia famiglia. Nel frattempo aveva trovato un lavoro come aiuto in cucina presso un hotel del centro di Roma. Aveva però un problema: doveva fare turni fino a tarda notte ed era impossibilitato a spostarsi tra Ostia e Roma in orari difficili. Così iniziò a venire a dormire a casa mia, di giorno.

Lo svegliavo verso sera, quando doveva riprendere il lavoro e mi colpiva che dormisse sempre con un cuscino in testa, rannicchiato, come a proteggersi. Gli era rimasta questa abitudine dai tempi del suo lungo errare, dormiva ovviamente vestito, con indosso le poche cose importanti: documenti, qualche foto, una agendina con indirizzi e numeri di telefono.

Passano gli anni, Maisam è promosso di grado in hotel, ora si occupa delle prime colazioni, prepara cheesecake favolosi per 200 persone. Il suo chef, che conoscerò, è un giovane bolognese che lo stima e lo protegge.

A spizzichi e bocconi mi consegna ogni tanto qualcosa di sé: saprò che la madre si chiama Mariam, la sorella Sara, che l’ultimo loro recapito è a Mazar-e-Sharif, ma non ne ha più notizie. Il padre è morto in un attentato. Saprò che ha frequentato una scuola coranica ma per pochi anni, poi la madre lo ha fatto partire con un parente per l’Iran e di lì è iniziato un lungo viaggio durato anni. Maisam è nato il 23 maggio del 1991, festeggiamo sempre il suo compleanno, ormai è uno di famiglia. Sa badare a se stesso, si iscrive ad una palestra, prende la patente, impara l’inglese e avvia la pratica per ottenere la cittadinanza italiana.

Ci vorranno anni, talvolta si scoraggia ma insiste, va negli uffici, non molla. E pochi giorni fa trovo nella mia cassetta delle lettere un documento della Prefettura: il decreto con cui lo Stato italiano gli concede la cittadinanza.

Avevo dimenticato di dire che all’atto dell’assunzione regolare in hotel gli si chiedeva una residenza, lui aveva quella del Centro Astalli ma non era bastevole per aprire un conto corrente dove gli potesse essere versato lo stipendio e così gli abbiamo dato la residenza al mio indirizzo. Certificata anche dal controllo dei vigili urbani.

Erano i tempi in cui veniva a dormire di giorno.

Ora è vicina la data del suo giuramento.

Andremo in famiglia (marito, figlia, genero e nipotina) ad assistere e so già che mi commuoverò di fronte a quel ragazzone alto e fiero che ora è un uomo, una pietra scartata tanto tempo fa dalla follia delle guerre e delle violenze che è diventata pietra testata d’angolo.

Metterò il mio vestito più bello, e gli orecchini di perle.

Poi tutti al ristorante a festeggiare questo nostro nuovo cittadino italiano.

di Giulia Alberico