Nei libri di Marta Barone e Mario Calabresi

Due figlie, due padri

William Turner  «Snow Storm» (1842)
04 maggio 2021

Nell’Italia del nuovo millennio due ragazze cercano di districarsi davanti a un muro di domande che, dalla loro vita personale, affondano in un periodo complesso della storia del Paese. Gli anni Settanta


Due figlie, due passati da conoscere e a cui dare un senso. Nell’Italia del nuovo millennio due ragazze con biografie molte diverse cercano di districarsi davanti a un muro di domande che, dalla loro vita personale, affondano in un periodo complesso della storia italiana, gli anni Settanta. Le due ragazze non sono storiche né giornaliste, non è tanto la Storia quel che interessa loro, ma piuttosto le storie di due uomini che non hanno conosciuto, o che hanno conosciuto solo in parte. I loro padri.

L’una, Marta Barone di Torino, dopo aver trovato in uno scatolone alcuni documenti di un processo degli anni Ottanta per partecipazione a banda armata a carico di Leonardo (Barone), si chiede chi fosse realmente quel padre scomparso qualche tempo prima. L’altra, Marta Saronio di Milano, avvicina un giornalista e scrittore domandandogli aiuto per scoprire chi fosse davvero Carlo (Saronio), suo padre, morto quando lei non era ancora nata. Alcune risposte a queste domande e il racconto della ricerca che le ha rese possibili sono diventati due libri che ripercorrono vicende il cui senso è importante per un intero Paese il cui più grande difetto — per dirlo con le parole di Leonardo Sciascia — è di essere senza memoria.

Traduttrice, scrittrice e consulente editoriale, in Città sommersa (Bompiani, 2020) Marta Barone racconta dunque la storia di suo padre. Un padre conosciuto e frequentato, che però muore prima di essersi rivelato totalmente alla figlia ventiquattrenne. Ma paradossalmente, nel momento in cui le sottrae il genitore, la morte in qualche modo glielo restituisce. «Avrei voluto che questa storia me la raccontasse lui. Avrei voluto avere il tempo di sentirla. Ma in un certo senso sono consapevole che il libro esiste perché non c’è più l’uomo».

A ricostruire la storia di Carlo Saronio in Quello che non ti dicono (Mondadori, 2020) è invece Mario Calabresi, anch’egli figlio di un uomo ucciso negli anni Settanta e anch’egli narratore di suo padre (Spingendo la notte più in là, Mondadori, 2007).

Nato in una delle famiglie più benestanti di Milano, nel 1975 il giovane Saronio (non ha ancora 26 anni) viene ucciso dagli amici con cui condivideva gli ideali rivoluzionari. «“Si vergognava delle sue origini e della vita facile che aveva avuto, questo lo aveva spinto verso quei gruppi di estrema sinistra. Per questo frequentava Fioroni per questo andava alle riunioni, per questo li finanziava”. Espiazione. È l’unica parola che mi viene in mente».

Le vicende di Leonardo Barone e Carlo Saronio sono molto diverse tra loro. Lo sono le famiglie di origine, i temperamenti, le vocazioni e i contorni, ma il gorgo del terrorismo — e quello che precede e alimenta la «piatta contabilità dei cadaveri e dei comunicati incrociati» (come scrive Marta Barone) — lega questi due giovani alle prese con le ingiustizie del mondo. Tra amicizie malriposte, amori che incrinano prospettive, slanci generosissimi, piccoli e grandi errori, svolte esistenziali silenziose e segrete.

Attraverso interviste a parenti, amici ed estranei, comprimari e testimoni, attraverso libri e fonti dell’epoca i due libri restituiscono tessere difficili da combinare. Silenzi non sempre colmabili («Non lo saprò mai — scrive Marta Barone —. Farà parte per sempre degli spazi vuoti della sua esistenza a cui nessuno ha mai avuto accesso»), dolorosi interrogativi («Carlo, ma che compagni di strada ti eri scelto?»).

Le storie di Leonardo Barone e di Carlo Saronio sono storie di inquietudini, violenza, ingenuità. Storie di ideali, politica, strumentalizzazioni e soprusi. Ma sono anche storie di figlie in cammino, di madri e di coraggio. Quello di porsi — e di porre — domande su errori, silenzi, obiettivi e fallimenti. Due storie che si chiudono entrambe con la «nostalgia del futuro». E con tutto ciò che essa significa.

di Giulia Galeotti