Quattro pagine - Approfondimenti di cultura, società, scienze e arte
A colloquio con Romana Severini

Custode dell’opera
di mio padre

Romana Severini nel salotto della sua casa romana tra le opere del padre Gino
04 maggio 2021

Tra le matite appuntite del suo taschino e il mio primo caffè


Due occhi chiari e bellissimi, una voce di limpida suadente sonorità che farebbe la fortuna di un’attrice, un’incantevole gentilezza di modi, una straordinaria somiglianza con suo padre Romana Severini, la figlia più piccola del grande pittore Gino, ritorna volentieri al passato. Con una memoria prodigiosa, fatta di grandi eventi e piccoli dettagli, Romana si muove senza malinconie tra i ricordi, lasciando di tanto in tanto affiorare parole francesi nel suo elegante italiano. Mentre la sorella Gina si occupava dei dipinti, lei si è sempre dedicata alla memoria letteraria fatta di documenti, lettere, appunti, scritture che danno conto di una dimensione più intima e privata di suo padre, di cui custodisce la presenza nel cuore.

Conversiamo nella sua casa che è nel centro di Roma, in un salotto caldo e accogliente che le somiglia: due divani di un rosso acceso che portano un tocco di allegria, delle tende dove il rosa ha perso l’antico di un tempo e, libere ormai dal colore, catturano ogni sfumatura di luce, le tele di suo padre alle pareti e due finestre da cui si intravede il fiume tra i rami fitti dei platani, cresciuti anarchici sul Lungotevere da quando nessuno li pota più. Accanto un mobile vetrina di cui va orgogliosa. Destinato, racconta, a conservare non gli oggetti preziosi, ma quelli più amati o che hanno contato qualcosa nella vita. «Lo consiglio ai giovani — aggiunge — è un modo semplice e bello di tenere accanto il passato».

Il primo ricordo della tua vita?

Ero piccolissima, c’era la guerra e ricordo il suono delle sirene e la discesa nelle cantine della nostra casa di viale Mazzini, nel quartiere Prati a Roma dove allora abitavamo. Non avevo paura, un sentimento che invece è legato a un ricordo immediatamente successivo. Avevo avuto una balia, Paolina, a cui ero rimasta molto legata e mi mandarono qualche tempo in campagna da lei, una sorta di piccola villeggiatura. Fino a quel momento la natura per me era stata il giardinetto con qualche albero, tanti sassi e poca erba che era di fronte alla nostra casa. I suoi cinque figli si ingelosirono della mia presenza e un giorno mi rinchiusero nel recinto dei maiali. Quel brutto episodio mi permise almeno di tornare a casa dai miei genitori.

Come divenne pittore Gino Severini e quali furono i suoi esordi?

Mio padre trovò la sua strada per una serie di circostanze che si legarono favorevolmente tra loro. Una notte lui e alcuni compagni di classe riuscirono a entrare nell’edificio scolastico, la Scuola Tecnica di Cortona, e a sottrarre i temi dell’esame, ma vennero scoperti e radiati dalle scuole del Regno. Era il 1899. Fu tale la vergogna in famiglia che mio nonno, impiegato comunale, chiese un trasferimento a Radicofani dove un’estate mio padre conobbe Matilde Luchini, una pittrice oggi ingenerosamente dimenticata, che lo avviò alla sua arte. Mentre lui viveva quell’educazione pittorica con l’idea ancora imprecisa di poter essere un giorno pittore, mia nonna Settimia, che era sarta, intuì il talento del figlio e decise di condurlo a Roma. Una “corbelleria”, come l’aveva definita mio nonno Antonio, finì per decidere il suo futuro.

Roma e Parigi, quanto hanno contato queste due città nella vita artistica di tuo padre?

A Roma mio padre frequentò i corsi all’Accademia di Belle Arti. Nel 1901 incontrò Umberto Boccioni e insieme conobbero Giacomo Balla che li introdusse alla pittura divisionista. Alla fine del 1906 si trasferì a Parigi, la capitale europea dell’arte in quegli anni, e qui iniziò a frequentare gli esponenti più importanti dell’avanguardia: Braque, Picasso, Modigliani e tanti scrittori e poeti. Gli piaceva quella vita improvvisata dove i grandi sogni finivano con il rendere non solo sopportabili ma anche amabili le difficoltà della vita quotidiana. Nel 1910 firmò il Manifesto tecnico della pittura futurista con Balla, Boccioni, Carlo Carrà e Luigi Russolo. L’adesione al futurismo fu più per compiacere Filippo Tommaso Marinetti e l’amico Boccioni che per intima convinzione, tanto è vero che mio padre scelse una strada tutta sua e per esprimere il dinamismo dell’arte preferì al tema della macchina le più poetiche figure dei danzatori.

Come avvenne l’incontro con tua madre Jeanne?

Gli artisti, la maggior parte in ristrettezze economiche, abitavano in case piccole e di fortuna e si ritrovavano da Procope, il più antico caffè letterario della città, o alla Closerie des Lilas luogo d’incontro dei poeti simbolisti su boulevard Montparnasse. Lì mio padre conobbe Jeanne, la figlia sedicenne di Paul Fort, allora nominato “principe dei poeti”, e se ne innamorò perdutamente.

Fu un grande amore il loro.

Un grande amore che sarebbe durato grande tutta la vita. Nonostante la giovanissima età di lei e gli anni che li dividevano decisero di sposarsi. Marinetti tuonò contro quel matrimonio con la stessa logica per cui, quando qualche artista del gruppo riusciva a vendere un quadro, diceva: «I soldi vanno al Futurismo non ai futuristi». A lui si aggiunse Boccioni: «Se ti sposi perdi la forza di dedicarti al tuo mestiere» continuava a ripetergli. Di fronte alla determinazione di mio padre i due finirono per arrendersi anzi, il 28 agosto 1913, Marinetti prestò la sua bella macchina bianca agli sposi e fu testimone di nozze insieme ad Apollinaire.

Con le nozze cambiò qualcosa?

Cambiò certamente qualcosa. Nonostante le difficoltà economiche e i problemi di salute che hanno sempre tormentato mio padre erano una coppia che si intendeva a meraviglia. Non solo si amavano, ma bastavano l’uno all’altra. Mio padre fino a quel momento aveva abitato nelle chambres de bonnes, come a Parigi vengono chiamati quei monolocali destinati al personale di servizio che si trovano all’ultimo piano, proprio sotto il tetto dei palazzi abitati dalla buona borghesia. Un tempo allegro, lo ricordava mio padre che come vicino di stanza aveva l’amico Gino Baldo, pittore, eccellente illustratore e caricaturista, perché in quelle stanze la sera si faceva festa, artisti, studenti squattrinati e giovani domestiche, che provvedevano a riempire le tasche dei loro grembiuli di buoni cibi e di buon vino sottratti dalle case dove prestavano servizio. Dopo le nozze gli amici naturalmente restarono una presenza importante, ma la dimensione familiare divenne prevalente.

Tra i tanti artisti che tuo padre frequentava chi ricordi in modo particolare?

Boccioni era un uomo dispettoso, egoista. Mamma lo detestava ma lo accettò perché per mio padre era un grande amico, a cui perdonava tutto. Molti anni dopo la sua morte precoce e improvvisa, che tanto addolorò mio padre, andammo a visitare la sua tomba a Verona e papà sulla lapide scrisse: «Caro amico, ce l’abbiamo fatta». Alludeva alla loro fortuna di pittori perché per tutti e due gli inizi erano stati duri. Quelle parole ressero per molti anni poi la pioggia finì per cancellarle. Soffici era un uomo garbato, gentile, come Tono Zancanaro che una volta mi portò in dono delle deliziose bambole in miniatura, mentre Balla resta per me un mistero. Erano amici, non litigarono mai, eppure a casa non se ne parlava e io non l’ho mai conosciuto. Fondamentale poi il rapporto di grande consonanza spirituale con il filosofo Jacques Maritain, che ebbe un ruolo importante nel suo riavvicinamento al cattolicesimo e segnò anche la sua arte. Penso alle grandi decorazioni murali — affreschi, vetrate e mosaici — realizzati in Italia e nelle chiese della Svizzera francofona.

E Picasso?

Tanto era detestabile con le donne, un vero manipolatore, tanto poteva essere generoso con gli amici. Ricordo che un anno lo andammo a trovare nella sua villa La Californie a Cannes, un’abitazione, come sempre le sue, straripante di oggetti. Lui conservava tutto, salvo traslocare quando la casa si riempiva troppo. Da Picasso ho imparato che nel disordine le cose in qualche modo ti appartengono, mentre quando si mette ordine diventano introvabili e quindi non ti appartengono più. Quel pomeriggio lasciai i miei genitori liberi di discorrere con lui e trascorsi del tempo nel bel giardino che circondava la villa, seduta su un gradino accanto a La capra, la celebre scultura in bronzo che Picasso aveva realizzato assemblando oggetti riciclati.

Che rapporto hai avuto con tuo padre?

Dopo Gina venuta al mondo un anno dopo le nozze, tre maschi morirono bambini, un dolore enorme per i miei genitori. La mia nascita fu, soprattutto per mio padre, un rinnovo di giovinezza. Sono cresciuta come una figlia unica, mia sorella aveva vent’anni più di me, e da bambina vedevo mio padre molto adulto e un po’ lontano, poi arrivò il tempo della vicinanza che nel ricordo associo a quando, ormai adolescente, mi fu permesso di bere il caffè. Quella pausa condivisa divenne per noi il momento prezioso delle confidenze. Lo amavo molto, come del resto ho amato molto mia madre. Era un uomo buono, generoso, di un’onestà specchiata, che prendeva collera per le ingiustizie e le questioni di principio — erano i momenti in cui gli saliva la mostarda al naso, come diceva usando un’espressione francese — e sempre disponibile verso i giovani artisti. Come padre era amorevole e attento, anche se severo. Approvò la mia decisione di dedicarmi alla danza classica e seguì con trepidazione e qualche malinconia per la nostra lontananza i miei esordi al teatro Massimo di Palermo. Ricordo con tenerezza le matite appuntite che sporgevano dal suo taschino e il cappello con carta di giornale che si faceva ogni giorno prima di dipingere, stando attendo alla posizione dei titoli e arrotondando con grande maestria le due punte. Una piccola opera d’arte anche il cappello. Per il resto era elegantissimo e quando usciva indossava dei magnifici feltri Borsalino. Ho dei ricordi bellissimi con lui. Il primo 14 luglio con la città in festa dopo il nostro trasferimento a Parigi; a Ravenna la visita alla tomba di Dante e alla statua di Guidarello Guidarelli, lo struggente cavaliere di marmo che le fanciulle allora baciavano accogliendo la leggenda che sarebbero state spose entro l’anno; la scoperta di Venezia quando a piazza San Marco mi fece chiudere gli occhi. Arrivati al centro della piazza mi disse «adesso li puoi aprire» e quella meraviglia mi arrivò subito al cuore. E poi le mostre, le Biennali. Pur essendo mio padre un uomo di modi semplici, addirittura modesti tutti lo omaggiavano. Quel «Maestro» che risuonava nell’aria mi inorgogliva, e mi sembrava di avere per padre un re. La sensazione che oggi mi resta è di averlo goduto poco, mentre con mia madre, che una volta rimasta sola venne a vivere con la mia famiglia e fu una nonna presente e affettuosa per i miei tre figli, il rapporto oltre a durare di più è stato di maggiore vicinanza.

E Severini pittore?

Mio padre ha attraversato tutte le avanguardie del Novecento. Personalmente amo molto le opere dopo il ritorno al classico degli anni Venti. Ritratti, paesaggi, maschere della Commedia dell’Arte, nature morte, un realismo magico, come è stato definito, all’insegna della luminosità, della purezza, dell’equilibrio delle forme.

Insieme a Roma e Parigi, Cortona completa la geografia del cuore di tuo padre.

Mio padre per tutta la vita ha continuato a sentire Cortona come una città del cuore, quando era lontano e quando negli ultimi anni ritrovò il piacere di viverla, riscoprendo antichi amici e antiche abitudini. È stato lui, per disposizione testamentaria, a donare alcuni dipinti alla città di Cortona e io ho proseguito nella sua direzione. Nelle nuove sale del Maec che si stanno allestendo troveranno posto non solo le opere di mio padre, ma il racconto della sua vita: schizzi, bozzetti, disegni, documenti, appunti, cataloghi, i costumi della Commedia dell’Arte da lui progettati e cuciti da mia madre, gli oggetti presenti nelle sue nature morte e la ricostruzione del suo studio pittorico. Mio padre riposa per sempre a Cortona ed è bello che la sua città racchiuda il ricordo del suo mondo d’artista.

di Francesca Romana de’ Angelis


Romana Severini nasce nel 1937 a Roma nel quartiere Prati, da Jeanne Fort e dal grande pittore Gino Severini. Alla fine della guerra la famiglia, insieme alla nonna materna francese, si trasferisce a Parigi. Qui trovano una situazione di grande difficoltà ma Jacques Maritain offre all’amico Gino la sua casa di Meudon, una cittadina fra Parigi e Versailles, e l’ospitalità si protrarrà per sei anni. Nel frattempo Romana inizia a studiare danza classica con maestri russi ex ballerini del Teatro Marinski di San Pietroburgo. A diciannove anni, con il suo primo contratto per la stagione musicale del Teatro Massimo di Palermo, ha inizio la sua attività di ballerina classica che la porterà a esibirsi in diversi teatri italiani. Poco dopo la morte del padre, nel febbraio 1966, comincia a dedicarsi alla cura del suo archivio. Per l’impegno costante a tutela delle opere e degli scritti paterni e per le donazioni fatte al Maec ha ricevuto diversi riconoscimenti, tra i quali il Premio Cortonantiquaria nel 2016, in occasione del cinquantenario della morte di Gino Severini.