San Giuseppe nelle riflessioni di don Mazzolari

«Visse grande e nell’ombra»

 «Visse grande  e nell’ombra»  QUO-097
30 aprile 2021

È il 1° maggio 1956 quando don Primo Mazzolari dal pulpito della chiesa di Bozzolo parla per la prima volta della festa cristiana del lavoro dedicata a san Giuseppe lavoratore. Pio xii l’aveva inaugurata l’anno precedente. Con orgoglio il prete cremonese fa presente che, nelle parrocchie da lui guidate, la festa del lavoro veniva celebrata da molti anni (dal 1921 per la precisione), a sottolineare che il cristianesimo si trova a suo agio in ciò che è autenticamente umano. Fino alla morte Mazzolari continuerà a commemorare nel 1° maggio san Giuseppe e Cristo lavoratori: entrambi artigiani, entrambi allenati alla fatica, entrambi abili nell’uso delle mani.

Nella spiritualità di don Primo la figura di san Giuseppe non è centrale. Il parroco di Bozzolo è sobrio nelle devozioni e anche in questo appare profondamente evangelico. Maria e Giuseppe sono ricordati nelle festività o in qualche novella natalizia, mentre la figura del padre di Gesù trova spazio nelle omelie, nei commenti del 19 marzo e in qualche altro raro caso in cui vuol riflettere sul lavoro. È curioso che a Nazareth il lavoro di Giuseppe venga associato a quello del figlio: non si può pensare all’uno senza guardare all’altro. Il lavoro di entrambi rimanda al Padre, «operaio eterno». Dio è sempre all’opera. Per questo il lavoro non è una condanna, ma è vita piena. Nella concezione del prete cremonese l’attività umana è nobile. È l’uomo, invece, ad aver sconsacrato il lavoro obbligando le persone al «troppo lavoro», sfruttando la manodopera, non pagandola e non rispettando i diritti umani. Il lavoro onesto, a discapito di quello che pensano in molti, migliora la propria umanità e la propria condizione sociale.

Giuseppe il «laborioso» riscatta ogni visione negativa del lavoro. Quando don Primo scrive queste riflessioni, gli scorrono nella mente i volti concreti dei suoi parrocchiani: i contadini, quelli che sono entrati in fabbrica nel secondo dopoguerra, i disoccupati, gli sfruttati, i braccianti agricoli, gli insegnanti. Molti di loro hanno un’esperienza negativa del proprio lavoro perché vissuto come schiavitù e oppressione, fatica ripetitiva e pesantezza quotidiana. Nel 1957 l’invettiva mazzolariana diventa grido contro «chi non paga la fatica»: commette un sacrilegio «come il sacerdote indegno che butta via l’ostia del Signore».

In tempi di lavoro duro, di facchinaggio sottopagato, di sfruttamento, c’è bisogno di uno sguardo positivo sull’attività umana e Mazzolari lo vede nell’artigiano Giuseppe. Il falegname associa l’ingegno umano alla natura, la creatività artistica al dono di Dio. Ciò che è buono, ciò che è vero, ciò che è giusto «non solo è cristiano, ma è nato dal cristianesimo». Dio non ha creato il denaro, ma l’uomo con le braccia: possiamo considerarlo un caso? La figura di san Giuseppe, tuttavia, viene approfondita anche attraverso le virtù della fedeltà e della responsabilità. Suo merito non consiste solo nella dignità di custode di Cristo e di sposo di Maria, ma nella fedeltà con cui ha portato avanti il suo compito. La sua fede è così schietta da rinunciare a confrontare le sue ragioni personali con la sapienza dei progetti di Dio. Negli appunti di predicazione del 19 marzo 1935, Mazzolari si sofferma su un dato evangelico curioso: il Vangelo si occupa di san Giuseppe soprattutto quando c’è qualche guaio all’orizzonte. Egli si trova a gestire problemi molto più grandi di lui: la maternità di Maria per opera dello Spirito santo, il viaggio a Betlemme per il censimento nei giorni del parto, la minaccia di Erode e la fuga in Egitto, la perdita di Gesù adolescente tra i dottori del Tempio. E aggiunge: «Se fosse vissuto l’avremmo rivisto ai piedi della croce, sul Golgota». Vivere all’interno di un disegno così grande e complesso non è un mestiere comodo per Giuseppe. Eppure, in questo si manifesta il suo valore: «Visse grande e nell’ombra». Di fronte ai gravi problemi che si trova ad affrontare, il custode di Cristo risponde con una responsabilità libera, che non si insuperbisce, non si avvilisce e rimane fedele anche quando non capisce. La responsabilità dà valore alla vita» — commenta Mazzolari — e san Giuseppe ha dimostrato di avere «un passo da corridore». È il padre sempre in cammino con Maria: da Nazareth a Betlemme, da Betlemme alla stalla, dalla stalla in Egitto e poi di nuovo a Nazareth. Con lui è già il Vangelo che cammina, insegnando che per predicare bisogna andare, uscire, partire. È l’apostolo che porta con sé la luce di Cristo.

In una riflessione natalizia del 1947 Mazzolari immagina un presepe dove l’uomo è assente. Intorno al Bambino c’è tutta la creazione fuorché l’uomo. Così è successo alla sua nascita quando tutti gli hanno chiuso la porta in faccia. Solo una stalla con animali e fieno possono ospitare il Figlio di Dio. Gesù che nasce è ancora solo. E pensando a Giuseppe, il parroco di Bozzolo si domanda: «Quali custodi (possiamo mettere) al posto di Giuseppe, se gli uomini nostri si scordano che i loro figli hanno un’anima oltre che uno stomaco? Se non sanno più riconoscere e baciare sul cuore di essi, come faceva il padre di Origene, il tabernacolo vivente di Dio? Se hanno case spalancate per tutto il male che è sulla strada? Se non provano accoramento per tutto il guasto che vedono trionfante nei figli? Se spesso se ne compiacciono se pur non lo favoriscono?». In Giuseppe traspare l’autentica paternità, quella che vola alto rispetto alle sabbie mobili del materialismo. Mazzolari aveva intuito la tragedia dell’assenza del padre già al suo tempo. A sessantadue anni dalla morte del parroco di Bozzolo, avvenuta il 12 aprile 1959, il suo insegnamento non perde attualità, tanto meno in questo anno dedicato alla famiglia. In fondo, custodire è un altro modo per dire amare.

«Il mondo — scrive Papa Francesco nella lettera apostolica Patris corde — ha bisogno di padri, rifiuta i padroni». Da sempre, però, abbondano i padri padroni che finiscono per tramutarsi in predoni.

A chi conosce la figura di Mazzolari viene spontanea la domanda: quanto c’è di don Primo nel san Giuseppe laborioso, carico di responsabilità in periodi difficili della vita, apostolo camminatore e padre amorevole? Moltissimo, e non è un transfert psicanalitico. È sintonia evangelica. È pura grazia per un mondo e una Chiesa che hanno ancora bisogno di padri. Come il pane quotidiano. E come il lavoro.

di Bruno Bignami