Anniversari
A ottanta anni da «Quarto potere»

Un alieno
sul pianeta Hollywood

 Un alieno  sul pianeta Hollywood  QUO-097
30 aprile 2021

Nel corso degli anni Trenta, Hollywood aveva messo a punto vari aspetti della sua invincibile catena di montaggio. Innanzi tutto aveva definito i parametri dei vari generi cinematografici, una strategia di puro marketing con cui continuare ad attirare nelle sale più pubblico possibile. Inoltre aveva affinato e in qualche modo cristallizzato i suoi mezzi espressivi incanalandoli in una forma complessiva che rappresentava lo standard per tutte le produzioni. A rendere omogenei i prodotti del grande schermo era stato in particolare il perfezionamento del découpage, ovvero quella tecnica di montaggio che consiste nello smontare una scena in singole inquadrature e poi ricostruirla seguendo precise geometrie che sappiano giungerle l’una all’altra in modo fluido. Anche grazie all’avvento del sonoro — che da zavorra era diventato presto arma in più — il cinema si era perciò sbilanciato dalla poesia alla prosa, dal visionario al narrativo, dall’artistico al popolare.

Tutte queste conquiste, marchio di fabbrica di un’intera, mastodontica industria, rischieranno di saltare all’inizio del decennio successivo a causa di una sola persona e di un solo film: Orson Welles e la sua opera prima Quarto potere (Citizen Kane). Dopo essersi fatto conoscere con una trasmissione radiofonica in cui fingeva di descrivere l’avvento degli extraterrestri sul nostro pianeta, Welles arriva egli stesso come un alieno sul pianeta Hollywood.

Non ancora ventiseienne, con trascorsi di teatro e la più completa ignoranza della vita da set, Welles riesce a ottenere da una Rko in precoce crisi un contratto senza precedenti che gli garantisce una libertà artistica assoluta. Non si sogna nemmeno di imparare in fretta e furia la tecnica registica, di cui non sa nulla, preferisce crearne egli stesso una nuova, appoggiandosi solo sulle collaborazioni — peraltro preziosissime e fondamentali per quello che sarà lo straordinario risultato finale — dello sceneggiatore Herman J. Mankiewicz, fratello del regista Joseph, del montatore e futuro regista Robert Wise, e del grande direttore della fotografia Gregg Toland, a sua volta un rivoluzionario. Questa miscela di genio, incoscienza e sfrontatezza, avrà come esito uno stile completamente personale. In particolare, la tecnica del découpage viene pressoché abolita. Molte scene sono quasi del tutto prive di montaggio interno. In compenso, la cinepresa recupera la mobilità dell’epoca del muto — anche se i piani-sequenza acrobatici arriveranno nei film successivi — inoltre si fa un uso insistito delle dissolvenze incrociate per creare vertiginose ellissi temporali, ma soprattutto si sfrutta al massimo la profondità di campo delle singole inquadrature, altra caratteristica che le prime cineprese per il sonoro non avevano più reso possibile. Non a caso Toland aveva appena avuto il merito di riesumare e rinnovare il western sul piano estetico – mentre Ford e Ombre rosse lo avevano fatto sul piano drammaturgico – con gli spazi finalmente di nuovo aperti dello splendido L’uomo del West (The westerner, William Wyler, 1940).

Ma di Quarto potere è innovativo anche il contenuto, a sua volta in dichiarato contrasto con i canoni hollywoodiani. Se i film di Hollywood si basano su una chiarezza narrativa alla portata di tutti, Welles racconta invece una non-storia, dimostrando come sia impossibile cogliere la complessità di una vita umana.

L’esistenza di Kane — interpretato dallo stesso Welles e ispirato al magnate dell’editoria William Randolph Hearst, ma con piccole varianti il ritratto potrebbe valere anche per un Howard Hughes o un qualsiasi altro mogul statunitense — viene così frantumata in flashback che rendono conto delle opinioni di chi l’ha conosciuto. Un caleidoscopio pirandelliano attraverso cui si sgretola anche l’immagine del capitalismo, colosso dalle gambe d’argilla che dà solo un’illusione di felicità, e a cui nel film si allude continuamente con il gigantismo delle scenografie.

Una condanna: la ricchezza, che il Kane morente rinnegherà rimpiangendo viceversa Rosebud, ovvero il ricordo della slitta con cui giocava quando era piccolo, prima di ricevere l’eredità che gli avrebbe sconvolto la vita. Altrettanto centrale è il discorso su come il populismo, alimentato senza remore dai mezzi d’informazione, possa affondare come una lama nel burro nella società statunitense. Un tema che si era appena visto in Arriva John Doe (Meet John Doe, Frank Capra, 1941) e che tornerà nel cinema americano degli anni successivi (Tutti gli uomini del re, Un volto nella folla). Per il resto Welles dà ampio sfoggio del suo bagaglio culturale di preparato uomo di lettere, rievocando non solo Pirandello ma anche Dickens, ovviamente Shakespeare e più sottilmente Proust. Un po’ troppo per il grande pubblico americano dell’epoca, che infatti ignorerà il film, sferrando un altro duro colpo alle finanze della Rko e marchiando a fuoco la carriera del regista, che da questo momento faticherà sempre molto per trovare una produzione per i suoi film. Hollywood dunque non viene intaccata dal talento anarchico, e la catena di montaggio rimane intatta, solidamente ancorata ai suoi parametri commerciali ed espressivi. Sul momento, l’influenza di Quarto potere sul cinema americano si potrà riconoscere tutt’al più all’interno del nascente genere noir, che non a caso avrà un varo più o meno ufficiale di lì a qualche mese con Il mistero del falco (The Maltese falcon, John Huston), un genere che farà ampio uso della struttura a flashback come espediente narrativo che decostruisce un racconto, più che spiegarlo, ma anche come simbolo di ineluttabilità e senso di condanna esistenziale. Più tardi, però, il capolavoro di Welles diverrà un faro per tutti quei registi che si opporranno all’omologazione espressiva e alla rigidità dei generi, un atteggiamento che avrà ovviamente vita più facile a partire dal declino di Hollywood. Che Quarto potere sia il più bel film di tutti i tempi, come pure è stato detto per decenni dalla critica, è quanto meno dubbio, visto che lo stesso Welles si sarebbe superato, nonostante le ingerenze della produzione, con il successivo L’orgoglio degli Amberson (The magnificent Ambersons, 1942). Di certo, è l’opera di un genio che ha saputo guardare ben oltre il cinema della propria epoca.

di Emilio Ranzato