San Giuseppe, «Patris corde» e il Patto educativo globale

“Ribelle” per amore

Achille Funi, «San Giuseppe e il Bambino» (1962)
29 aprile 2021

Come sarà rimasto Giuseppe quando avrà sentito suo Figlio Gesù dire «Non chiamate nessuno papà sulla terra, perché uno solo è il vostro papà nel cielo»? Probabilmente sarà rimasto come Maria quando udì suo Figlio dire «Chi è mia madre, chi sono i miei fratelli?». Giuseppe non avrà pensato che Gesù non volesse riconoscere lui e Maria come genitori, ma anzi, si sarà sentito confermato doppiamente genitore. Sapeva che per Gesù fratello, sorella e madre non erano solo i parenti di sangue, ma chi ascoltava la parola di Dio e la metteva in pratica. E chi più di lui e di sua sposa Maria avevano ascoltato e fatto la volontà di Dio?

Dobbiamo riconoscere che per Giuseppe non sarà stato facile ritrovarsi a capo di una famiglia così “originale”, dove: la sposa era rimasta incinta prima del matrimonio; lo sposo non era il padre biologico del figlio; il figlio era un po’ “ribelle” (ogni tanto usciva con frasi tipo «non chiamate nessuno papà», «devo pensare alle cose del padre mio», «chi è mia madre?», «cosa vuoi da me donna?»); gli sposi vivevano insieme non come marito e moglie ma come fratello e sorella; la sposa era nello stesso tempo madre e sempre Vergine; il figlio era nello stesso tempo di natura umana e divina. Insomma, quella di Giuseppe era tutto meno che una “famiglia normale”. Era una famiglia basata non tanto su legami di sangue, ma su legami d’amore, dove è possibile essere papà anche se i figli non sono biologicamente i tuoi, dove è possibile essere fratello, sorella e madre anche senza avere lo stesso sangue. Per guidare una famiglia così speciale ci voleva una persona veramente speciale.

Spesso siamo stati abituati a vedere Giuseppe come una figura un po’ sdolcinata, mite, e anche un po’ ingenua. Nella recente e bellissima lettera apostolica Patris corde, Papa Francesco dopo aver ripreso gli aspetti “classici” della figura di san Giuseppe come la tenerezza, l’obbedienza, l’accoglienza, l’essere nell’ombra, riscatta l’aspetto dell’uomo forte, coraggioso, creativo e lavoratore: «Giuseppe non è un uomo rassegnato passivamente. Il suo è un coraggioso e forte protagonismo» (Patris corde, 4). Il Vangelo più volte sottolinea che Giuseppe (e Maria) agiva in conformità alla legge, rispettava le prescrizioni di Mosè. Ma nei fatti il Vangelo ci mostra un Giuseppe “ribelle” che aveva disubbidito alla legge. Secondo la legge di Mosè infatti, Giuseppe, dopo aver scoperto che la sua promessa sposa era rimasta incinta non per mezzo di lui, avrebbe dovuto farla morire. Il suo amore per Maria invece lo portò a disubbidire alla legge e a salvare la sua donna, anche se riteneva che lo avesse “tradito”. Ogni giorno i notiziari ci informano di tanti femminicidi, di uomini che uccidono le loro mogli o compagne dalle quali ritengono di essere stati traditi o abbandonati. Giuseppe al contrario ci insegna che, quando si ama qualcuno per davvero, lo si continua ad amare nonostante tutto, anche se ti ha “tradito”; ci insegna che non si può mai fare del male alle persone che si amano veramente.

Probabilmente Gesù ha imparato a essere “ribelle”, e a mettere l’amore prima della legge, da suo papà Giuseppe. Gesù ha sfidato i maestri della legge che volevano imprigionarlo nei lacci dei riti e dei sacrifici, criticando il fariseismo, i riti esteriori, le tradizioni, le abluzioni, i sacrifici di animali (butta all’aria le bancarelle dei commercianti e dei cambiavalute al Tempio), ha disatteso le proibizioni del sabato (sembrava che aspettasse solo il sabato per fare ciò che non si poteva fare in quel giorno). Gesù ha imparato anche da suo papà Giuseppe ad amare così tanto. Giuseppe era rimasto con Maria nonostante tutto, anche se sapeva che poi tutti avrebbero spettegolato e offeso (probabilmente si era risaputo che Maria era ritornata incinta dopo i tre mesi passati dalla cugina Elisabetta; in una delle numerose diatribe i farisei rinfacciarono a Gesù che loro erano figli di Abramo, e non di prostituzione, sottintendendo che Gesù invece lo fosse). Giuseppe per amore non ha consegnato alla morte la sua amata Maria. Ecco da chi ha preso Gesù. Come il suo papà che aveva difeso la sua famiglia, l’aveva portata in Egitto per sottrarla alla violenza di Erode, così Gesù difendeva i suoi discepoli e i più indifesi dagli attacchi dei prepotenti (per esempio quando i farisei attaccavano i discepoli perché non digiunavano o non osservavano le prescrizioni della legge).

Gesù, quando ha difeso la donna sorpresa in flagrante adulterio, mentre la legge ordinava di lapidare donne come quelle, ha fatto esattamente quello che aveva fatto suo papà Giuseppe. Gesù ha perdonato e ha continuato ad amare i suoi discepoli che lo avevano tradito e abbandonato, perché aveva imparato da suo papà che bisogna amare e perdonare anche quando veniamo traditi. Papa Francesco nella Patris corde scrive: «Voglio immaginare che dagli atteggiamenti di Giuseppe Gesù abbia preso lo spunto per la parabola del figlio prodigo e del padre misericordioso» (4). Dice anche che Giuseppe ha insegnato a Gesù a camminare, certamente non solo nel senso di muovere i primi passi coi piedini, ma a camminare nella vita. Giuseppe è stato l’educatore di Gesù. Bellissime sono le parole del Papa a riguardo: «Essere padre, significa introdurre il figlio all’esperienza della vita, alla realtà. Non trattenerlo, non imprigionarlo, non possederlo, ma renderlo capace di scelte, di libertà, di partenze» (7).

Tra gli obiettivi del Patto educativo globale, Papa Francesco indica l’impegno a vedere nella famiglia il primo e indispensabile soggetto educatore. Si dice che generalmente i figli sono specchio della famiglia. Se in una famiglia i figli sentono sempre e solo parlare di soldi, cresceranno persone attaccate ai soldi, egoisti, taccagni. Se in famiglia i figli sentono parlare sempre con disprezzo degli altri, degli stranieri, degli immigrati, diventeranno dei razzisti (perché razzisti non si nasce, si diventa). Se in famiglia i genitori sono disonesti e vogliono una vita facile senza fatica, anche i figli ricorreranno alle vie facili per fare soldi e saranno dei disonesti e lazzaroni. Molte cose Gesù le ha imparate dalla sua famiglia. Da suo papà Giuseppe ha imparato a lavorare duro (“figlio del falegname”), a fare sacrifici (non aveva dove posare il capo), ad aiutare gli altri, a essere coraggioso: «Giuseppe è il vero miracolo con cui Dio salva il bambino e sua madre. Il cielo interviene fidandosi del coraggio creativo di quest’uomo che, giungendo a Betlemme e non trovando un alloggio dove Maria possa partorire, sistema una stalla e la riassetta, affinché diventi quanto più possibile un luogo accogliente per il figlio di Dio che viene al mondo. Davanti all’incombente pericolo di Erode, che vuole uccidere il bambino, ancora una volta in sogno Giuseppe viene allertato per difendere il bambino, e nel cuore della notte organizza la fuga in Egitto» (Patris corde, 5). Bella l’applicazione che il Papa fa alla nostra vita: «Anche la nostra vita a volte è in balia dei poteri forti, ma il Vangelo ci dice che ciò che conta Dio riesce sempre a salvarlo, a condizione che usiamo lo stesso coraggio creativo del carpentiere di Nazareth, il quale sa trasformare un problema in un’opportunità anteponendo sempre la fiducia nella Provvidenza. Se certe volte Dio sembra non aiutarci, ciò non significa che ci abbia abbandonati, ma che si fida di noi, di quello che possiamo progettare, inventare, trovare» (ibidem). Giuseppe è quindi per tutti un modello di educatore e di padre, perché padre non è solo chi mette al mondo qualcuno, ma chi se ne prende cura. Giuseppe si è preso cura di Maria e Gesù. Immaginiamoci se Giuseppe avesse fatto lapidare Maria; conseguentemente anche Gesù sarebbe stato lapidato nel suo grembo. E cosa ne sarebbe stato della storia della salvezza? Giuseppe non ha accolto con sé Maria controvoglia solamente per obbedienza al comando ricevuto in sogno, ma perché sapeva che abbandonandola (“licenziandola nel segreto”) l’avrebbe condannata a una vita di dure sofferenze. Se le vedove e gli orfani soffrivano ed erano in balia di tutti, nonostante fossero state donne sposate e i figli “legittimi”, immaginiamoci cosa ne sarebbe stato di una ragazza non sposata, abbandonata e con un figlio “illegittimo”. Giuseppe ci insegna a prenderci cura di figli “non nostri” biologicamente, ma nostri spiritualmente, moralmente, umanamente. Come ci ricorda il Papa con parole mirabili, «padri non si nasce, lo si diventa. E non lo si diventa solo perché si mette al mondo un figlio, ma perché ci si prende responsabilmente cura di lui. Tutte le volte che qualcuno si assume la responsabilità della vita di un altro, in un certo senso esercita la paternità nei suoi confronti» (Patris corde, 7).

di p. Ezio Lorenzo Bono, CSF