L’avventura della fede
Lingua e cultura delle popolazioni indigene immortalate nei libri del gesuita Antonio Maccioni

Il vangelo del Gran Chaco

Le rovine di una delle riduzioni gesuite nel Gran Chaco da dove partiva l’attività missionaria
28 aprile 2021

Settecentomila chilometri quadrati distribuiti tra il Río Salado, le colline dei Chiquito, le muraglie orientali delle Ande e il fiume Paraná: un bassopiano uniforme caratterizzato dal clima tropicale che lascia campo a quello temperato delle pampas verso sud. Era questo il territorio assegnato, sul finire del Seicento, ai missionari gesuiti del Paraguay chiamati a portare la parola del Signore tra le tribù dei nativi e a insegnare loro i primi rudimenti dell’organizzazione urbana. Un territorio destinato a entrare nella storia dell’evangelizzazione cattolica del Sud America e nelle sceneggiature di diversi film, capace di affascinare ancora oggi con i suoi angoli di natura intatta. Il Chaco.

Il gesuita Antonio Maccioni vi arrivò nel 1712, al seguito delle truppe del governatore Don Estevan de Urizar y Arzpacochaga, chiamate a fronteggiare le popolazioni ostili dei nativi. E vi rimase, affascinato dalla popolazione locale, per fondarvi la riduzione di Miraflores. Il missionario entrò nella storia di quest’angolo di mondo, si guadagnò la fama imperitura di biografo del Chaco e lasciò la vita terrena nella convinzione di aver contribuito in minima parte alla civilizzazione delle popolazioni indigene. Un’utopia. L’anno seguente la guerra avrebbe spazzato via tutte le certezze, mettendo gli uni contro gli altri, indios e colonizzatori, gesuiti e potere governativo. Distruggendo il primo grandioso progetto comunitario e allontanando la Compagnia di Gesù dai territori della corona spagnola.

Antonio Maccioni era nato nel 1671 a Iglesias, in Sardegna, all’epoca incorporata nel regno di Castiglia. Il suo atto di nascita fu pertanto redatto in catalano. Figlio di Joani Machony e Antiopa Patery, Antonio compì i suoi primi studi a Cagliari. Il 23 novembre del 1688 (qualche storico propende però per il 24) iniziò il noviziato nella Compagnia di Gesù della stessa città e dopo due anni, il 30 novembre 1690, entrò nella Domus probationis Calaritana, dove prese i primi voti. Si dedicò allo studio della filosofia per tre anni e poi di teologia per altri quattro per poi insegnare retorica per un biennio. Il 21 dicembre del 1695 decise di dare corpo al proprio desiderio missionario e con una lettera al generale dell’Ordine chiese di essere inviato nel continente americano. Il giovane gesuita fu accontentato: nel 1698 si imbarcò per Cadice e di lì per l’America del sud, inviato nella provincia del Paraguay. Giunse a Buenos Aires il 24 settembre 1698 e cambiò subito nome. Nei documenti ufficiali il suo nome venne infatti trasformato in Machoni (ma viene citato anche come Machony, Machoni o Macioni). Ordinato sacerdote l’11 dicembre 1701, dal 1704 al 1706 insegnò filosofia nel Collegio massimo di Córdoba nel Tucumán. La sede di Córdoba (oggi città compresa nei confini dell’Argentina), insieme a quelle di Santiago del Estero e di Asunción, divennero i principali centri della provincia gesuitica del Paraguay che abbracciava un’area geografica molto vasta, incluse diverse zone che, oggi, fanno parte dell’Argentina e dell’Uruguay.

L’8 dicembre del 1708, a Salta, Antonio Maccioni prese il quarto voto, di speciale obbedienza al Papa, secondo le regole della Compagnia. Arrivato ai confini delle terre evangelizzate, il gesuita non si limitò all’impegno di missionario tra gli indios lules, una popolazione particolarmente bellicosa della zona, ma coniugò invece attivismo organizzativo e ricerca documentale ponendosi l’obiettivo di trasferire su carta tutto il sapere che negli anni aveva appreso nel contatto quotidiano con i nativi. Maccioni si preoccupò che i manoscritti dei suoi confratelli non giacessero come inutili fardelli negli archivi della missione provinciale del Paraguay ma diventassero invece fonte di sapere e insegnamento per chi doveva avvicinarsi alla cultura delle popolazioni locali. Dal 1712 al 1719 contribuì in misura notevole a fondare la reducción Miraflores (dandole inizialmente il nome di San Antonio), in prossimità della regione del Gran Chaco, impegnandosi nel suo sviluppo e nella conversione delle popolazioni vicine. La sua innata modestia lo portò però a cambiare subito il nome in San Esteban per rendere omaggio a Don Esteban de Urizar, adoperatosi in favore della comunità.

Impegnato fino al 1719 a Miraflores il gesuita di Iglesias ne sostenne con la propria energia lo sviluppo e operò instancabilmente nella conversione delle popolazioni vicine. Dal 1719 al 1722 fu socio del provinciale del Paraguay J. (de) Aguirre, dal 1722 al 1726 rettore del collegio di Salta e dal 1726 al 1728 maestro di novizi a Córdoba. Dal 5 giugno 1731 al 25 marzo 1734 fu in Europa quale procurator in Urbe, cioè procuratore generale a Roma della provincia del Paraguay, su proposta avanzata dal vescovo di Córdoba con lettera del 26 ottobre 1730.

Il rientro temporaneo in Italia, in qualità di procuratore generale a Roma della provincia del Paraguay, gli permise di perorare la causa delle riduzioni presso la corona spagnola e la Santa Sede e di dare seguito alle sue numerose ricerche documentali. Il suo certosino lavoro lo indusse a dare alle stampe tre volumi. Il primo, Las siete estrellas de la mano de Jesús, raccoglie le storie di sette confratelli sardi morti nelle missioni delle Indie: B. Tolo di Cagliari, L. Chessa di Sassari, G. A. Manchiano di Alghero, G. A. Solinas di Oliena, M. A. Serra di Iglesias, G. Tolo di Posada, G. G. Guglielmo di Tempio. In questo lavoro Antonio Machoni racconta l’attività pastorale e di evangelizzazione esercitata in America del sud dai sette padri gesuiti nel corso dei secoli xvii e xviii, religiosi come detto tutti originari della Sardegna e le cui opere forniscono informazioni preziose, anche di natura etnografica, raccolte direttamente sul campo attraverso i contatti e le frequentazioni avute con numerose e differenti popolazioni di Paraguay, Bolivia, Cile, Argentina e, in minor misura, Uruguay. Particolarmente interessante, dal punto di vista etnologico, appare il passaggio in cui Antonio Maccioni racconta alcuni episodi della vita di padre Quesa che hanno per protagonisti due indigeni, con molta probabilità di etnia guaraní, che abbandonano il villaggio per unirsi a indigeni “infedeli” di etnia charrúa con i quali conducono una vita dissoluta, lasciandosi trasportare dal peccato, per poi pentirsi e redimersi come nella parabola del figlio prodigo. Dal racconto si deduce che i charrúas, protagonisti in negativo della vicenda narrata, appaiano come gli indigeni infedeli, tra i più barbari del mondo e dai costumi selvaggi che, in qualche modo, seducono, distogliendoli dalla retta via, i giovani indigeni che si allontanano dalla comunità cristiana.

Arte y vocabolario de la lengua Lule y Tonocoté rappresentò invece il suo personale contributo alla grammatica linguistica locale, strumento che si rivelerà essenziale per i futuri missionari inviati tra i lule e i tonocoté. L’opera, oggi rara, venne apprezzata per la concisione stilistica e la chiarezza delle regole. Nel libro Maccioni fissò con acume la corrispondenza fra i termini indigeni e quelli della lingua spagnola, agevolando l’attività missionaria nelle cinque nazioni indie che vivevano nella regione del Gran Chaco, sulle rive del fiume Pilcomayo: Lula, Toconota, Isistina, Oristina, Toquitina. Il religioso curò anche la pubblicazione di Descripción chorográphica del Gran Chaco Gualamba, un’opera scritta da padre Pedro Lozano che suscitò notevole interesse perché forniva numerose notizie sulle condizioni di vita dei nativi e sull’estensione e la natura delle terre, nonché precise indicazioni topografiche di luoghi ancora poco conosciuti. L’impegno del gesuita cagliaritano a scrivere grammatiche di ordine pratico, affinché i missionari potessero apprendere la lingua indigena del territorio dove attuavano la loro evangelizzazione, si inserisce nel ruolo importantissimo che ebbero questi religiosi nella conservazione e nello studio delle lingue amerindie.

Nel 1733 Antonio Maccioni pubblicò, ancora a Córdoba nel Tucumán, un’opera di devozione mariana, Día virgíneo o sábado mariano. Obra parthénica (de la Reina de los cielos), un volume poco noto e alquanto raro che fu ristampato a Madrid nel 1753 e a Buenos Aires nel 1878.

Le pubblicazioni rappresentano il risultato di un preciso progetto del gesuita: quello di far conoscere in modo imperituro l’operato dei militari conquistadores del Chaco e soprattutto degli evangelizzatori gesuiti in quell’impervia zona. Scopo delle pubblicazioni era anche quello di attirare l’attenzione della corona spagnola sulla provincia paraguaiana onde recepire nuovi fondi per realizzare collegi e scuole. Il materiale raccolto in volume sarebbe diventato anche un utilissimo strumento di studio sull’operato dei gesuiti, materiale divenuto raro dopo lo scioglimento dell’Ordine e la cacciata dai territori americani. Il lavoro svolto da Maccioni si inserisce oltre tutto nel ruolo importante di conservazione e studio delle lingue amerindie. Grazie alle fatiche del gesuita di Iglesias è stato possibile non solo una penetrazione missionaria tra i lule ma anche conservare tale lingua per i posteri. Una traccia indelebile sulla storia di popolazioni indigene che gli eventi coloniali hanno spazzato via come polvere nel vento.

Rientrato in America meridionale nel 1734, il gesuita cagliaritano portò con sé, a Rio de la Plata, una trentina di nuovi missionari e accettò nuovamente l’incarico di maestro dei novizi a Córdoba. Divenuto provinciale del Paraguay il 10 gennaio del 1739 (lo rimase fino al 2 febbraio del 1743) Maccioni pubblicò Palatii eloquentiae vestibulum, sive Tractatus duo de methodo variandae orationis, un’introduzione alla retorica e al suo uso ai fini della predicazione. Chiamato nel 1743 a svolgere la funzione di preside del Collegio Massimo e dell’Università di Córdoba, dopo sette anni diede alle stampe, in tre volumi, un’opera di insegnamento: El nuevo superior religioso instruído en la práctica, y arte de gobernar, tratteggiandovi le caratteristiche per operare con giudizio nello svolgimento didattico. Il primo volume tratteggia le virtù che deve possedere il buon superiore, il secondo i suoi doveri, il terzo «le sagge maniere con che debbe governarsi sopra le delazioni che si fanno contro ai religiosi subordinati». Quest’ultima opera fu considerata elegante, seppur prolissa, ma fu lodata per «la sua esattezza nel riferire i fatti, e l’amore che il gesuita serbò saldissimo per la sua terra natale, sebbene diviso da lei per tanto cielo e per così lunghi anni».

Gli anni passati in Chaco non minarono affatto l’amore per le proprie radici sarde. Maccioni visse fino agli ultimi giorni della sua vita nella speranza di poter tornare a Iglesias, ma la morte lo colse a Córdoba nel Tucumán il 25 luglio 1753. L’anno seguente sarebbe iniziata la guerra tra i nativi e i colonizzatori. Una pagina tristissima che avrebbe vanificato in poco tempo l’impegno di tanti missionari nel Chaco. Una pagina che per fortuna gli fu risparmiata.

di Generoso D’Agnese