Il vescovo di Asti racconta la sua esperienza missionaria in Kenya

Dove Dio ha nome di donna

 Dove Dio ha nome di donna  QUO-095
28 aprile 2021

È in libreria in questi giorni il nuovo testo di monsignor Marco Prastaro — dal 2018 vescovo di Asti, per tredici  anni (dal 1998 al 2011) missionario fidei donum in Kenya — dedicato principalmente alla «forza inarrestabile» delle donne keniane,  capaci di superare le più grandi ingiustizie e i dolori più profondi. Del libro, Dove Dio ha nome di donna. La mia missione tra i Samburu del Kenya (Editrice missionaria italiana, Verona, 2021), pubblichiamo la parte conclusiva.

All’inizio del mio periodo da missionario in Africa pensavo di essere io quello che dava, poi ho scoperto che ero soprattutto quello che riceveva. Sì, ho amato gli africani nella mia piccolezza, ma sono stato soprattutto amato, per di più oltre ogni ragionevole proporzione.

Nel mio ripensare al tempo trascorso in Kenya, in mezzo al popolo samburu, mi sono sentito chiamato a risolvere un’ulteriore questione inquietante: quella del dolore e dell’ingiustizia. Inizialmente non capivo, più di una volta mi sono ribellato, litigavo con Dio e lo sgridavo. Avrei fatto una rivoluzione, avrei voluto svergognare tutti i responsabili dei mali del mondo. Mi arrabbiavo per la violenza che sembra regnare sulla terra, ma in fondo pensavo di risolvere il problema con la stessa violenza. Poi è scattato un altro sentimento: la delusione, il cinismo, quel triste senso di inutilità che fa dire: «Tanto non ne vale la pena, tanto nulla cambierà». E poi è arrivata quella donna samburu che mi ha insegnato a guardare la croce. E ho capito che in tutto il dolore che mi circondava esisteva un senso. Ho capito che non eravamo soli e che ogni cosa e tutta la realtà erano già state redente.

Ho capito che può togliere il dolore del mondo solo chi vi partecipa, come ha fatto Gesù, il quale l’ha preso tutto su di sé e ne ha patito fino alla fine. Compresi che potevo fare anch’io qualcosa per combattere tutto quel male: dovevo uscire da me, dalle mie rabbie e rivendicazioni, ed “entrare” in quel dolore, perché solo condividendolo avrei potuto trovare, insieme con chi mi stava intorno, la via della libertà.

Allora ho cambiato atteggiamento: ho continuato a combattere sempre, accettando però che non mi sarebbe stato dato di vedere qui, subito, su questa terra, la vittoria finale. Opporsi al male e accettare il male: i due poli opposti hanno iniziato a stare insieme. Solo in quel frangente ho iniziato veramente a portare il mio contributo per cambiare il mondo. Solo allora ho iniziato a provare pace anche nella tragedia. E poi ancora, restava sullo sfondo la grande tentazione con cui la vita missionaria ti mette perfidamente alla prova: l’onnipotenza. Tu hai la cultura, la conoscenza, i mezzi con cui fare tante cose: i tuoi fratelli africani, no. A volte, poi, la vita di molti dipende da te: studiare e costruirsi un futuro, lavorare e mantenere la famiglia, curarsi e non morire… Sono tutte opportunità che tu puoi dispensare e, se non hai un minimo di senso di responsabilità, inizi a fare disastri, perdi il contatto con la realtà e il senso del limite. Se non stai attento, rischi di crederti capace di salvare il mondo, di dare vita, anche quella eterna! Soldi e potere sono una grande tentazione, un grande pericolo: con essi puoi farti dio!

Ripensando alla mia esperienza in terra keniana, ripercorrendo le storie che ho condiviso, dovrei onestamente riconoscere la sproporzione esagerata che vi è stata fra le energie, i mezzi impiegati e i piccoli risultati ottenuti. Eppure, ritengo che ne sia valsa la pena. Se vi è stato, come spero, almeno un piccolo e lieve cambiamento, ne è valsa la pena, anche se fosse costato un’esagerazione. Ne sarebbe valsa la pena anche se, anziché un impercettibile risultato, vi fosse stato il più grande fallimento.

Già, è l’amore che doniamo che dà senso a ciò che facciamo. Ho provato ad amare. Continuo a provarci, ogni giorno. Ci provo con tutte le mie forze. Non sempre ci riesco, non sempre mi spiego bene. Ma questo riprovarci ogni giorno è ciò che riempie la mia vita e mi fa dire che vale la pena vivere, al di là dei risultati, al di là delle approvazioni e dei successi. La vita vale perché ami. La vita vale perché Dio ti ama. La vita vale se la vivi alla maniera di Dio, ovvero amando. La vita ha sapore se riconosci che non sei Dio ma che comunque puoi provare a seguirlo e ad amare con il suo stile. Amare è la cosa più grande che puoi fare per un’altra persona. Amarla, anche se forse il tuo amore non le servirà a nulla: l’hai comunque amata, e dunque è servito.

Nel lavoro missionario ci si deve confrontare con problemi grandissimi che per certi versi non hanno una soluzione. Il senso di impotenza ci accompagna sempre e la situazione, in fin dei conti, ci fa crescere. Ci si sente spesso come chi tiene la mano a un moribondo: un gesto che non riesce a fermare la morte che si avvicina, ma rende quell’ultimo ed estremo momento dell’esistenza profondamente diverso perché pieno di amore e umanità. In questo trovo tutto il bello di ciò che ho vissuto. Sapere di essere mano che si fa vicina e ti stringe nella necessità. Non risolve i problemi, ma ridona dignità. Non ti salva dalla morte, ma ti accompagna per affidarti a un’altra mano, quella del Signore. La sola mano che solleva e dà vita eterna.

Concludo con un ultimo ricordo che non ha ancora perso la sua nostalgica intensità. Molte sere, rientrando a casa, spesso dopo una giornata faticosa, talvolta anche deludente, ammiravo la bellezza del paesaggio africano mentre scendeva il tramonto, quando i colori diventavano più intensi. Lo sguardo si spingeva lontano, verso quell’orizzonte che non aveva fine né ostacoli che lo coprissero. Quella bellezza mi pervadeva e mi ridava speranza. Era la bellezza di Dio, della sua immensità, del suo silenzio, del suo intrecciarsi con la vita e la morte degli uomini, del suo prometterci vita nuova. La promessa di un’alba dopo il tramonto.

di Marco Prastaro