I rumori dell’alba e la ferialità della Grazia

La musica discreta
dei cassonetti

 La musica discreta  dei cassonetti   QUO-094
27 aprile 2021

Celebro ogni mattina in una chiesa bianchissima, che in questa stagione durante la preghiera si inonda di luce. Trasparenti, le grandi vetrate, senza distrarre, legano esterno e interno. Le attraversano non solo i raggi del sole, ma anche alcuni rumori del mondo che si risveglia. Uno dei meno sacri è quello dei cassonetti che gli addetti alle pulizie riportano dal marciapiede dentro la scuola.

Il raccoglimento in cui rimbombano questi gesti feriali e l’unica alba che avvolge chi lavora e chi prega danno a ogni cosa il suo posto. Invisibile, come la dedizione di chi libera la scena dai rifiuti, il sacramento agisce silenziosamente nelle coscienze prima che aule, cortili, porticati brulichino di voci. Latens Deitas: cura nascosta, grazia senza applausi.

In gran parte stranieri, chi provvede ai rifiuti parla più spesso con lo sguardo che con i discorsi. Ne conosco la voce per la freschezza del loro saluto: i primi “buongiorno” e gli ultimi “buonasera” che sigillano le mie giornate. Dialogare con gli occhi genera però una confidenza che a lungo andare dona istanti di rivelazione. Giorgio, ad esempio, è uno scarto agli occhi del mondo, quindi ai suoi stessi occhi. Italiano, corpo che racconta contraddizioni e fragilità di un’adolescenza travagliata, con due cestini per rifiuti fra le mani mi ferma e finalmente prende la parola: «Don, questa settimana ho perso improvvisamente mio padre e dopo poche ore ho saputo dalla mia ragazza che diventerò padre. Secondo lei c’è un messaggio di Dio in questa coincidenza?».

Lo chiede come chi crede di non capir nulla e si affida a un sapere maggiore: non può cogliere la violenza del rovesciamento, lo scarto tra la sua intuizione e il mio presunto sapere. Latens Deitas: tutta la storia biblica è disseminata di rovesciamenti per cui il nuovo sale dal basso. «Chi è come il Signore, nostro Dio, che siede nell’alto e si china a guardare sui cieli e sulla terra? Solleva dalla polvere il debole, dall’immondizia rialza il povero, per farlo sedere tra i prìncipi» (Salmo 113).

Dall’immondizia, dunque. Dio e l’immondizia: un rapporto così improbabile, così impossibile, da mancare di rappresentazioni nella seppur formidabile, eterogenea, multiforme tradizione artistica attivata dal racconto biblico in secoli di storia, a ogni latitudine. Immondizia è qualcos’altro dalla natura, altro dal naturale ritmo della vita che implica il morire o il finire ai margini.

Immondizia è sempre traccia del passaggio umano, per cui Dio solleva da ciò che noi buttiamo, si presenta in ciò che rimane dopo i nostri eccessi, guarda tra le macerie, investe su ciò che giudicavamo non servire più. Ho dei confratelli anziani che si considerano “rottamati”, talvolta perché strappati alla comunità per dare forma a strategie pastorali che non guardano alle storie, alla fiducia riposta, ai tempi delle persone. Più che nel segno dell’oggettività, il mondo umano fiorisce o muore in quello dell’apprezzamento, del nome proprio, della differenza. I rottami si ammassano, i rifiuti si accumulano senza forma né nome.

La Geenna, discarica di Gerusalemme che nelle parole di Gesù diviene metafora di perdizione, è la valle oscura in cui si perde la propria anima, la singolarità che Dio custodisce. Meglio buttare via un occhio, un braccio, un piede, piuttosto che finire nella Geenna, dice Gesù (Marco 9, 43). Scartati, sdraiati, rottamati: se c’è una sfida epocale che investe il cristianesimo è quella di opporre a metodi sradicanti e distruttivi la sensibilità del pastore che conosce i suoi, uno a uno. È la vera questione ecologica, di cui i drammi ambientali sono un debole riflesso, perché descrivono squilibri, inquietudini, stravolgimenti, che iniziano nell’anima. Chi è distrutto distrugge. Chi è custodito custodisce.

Di che cosa liberarci, perché non ci si liberi un giorno di noi? Che cosa perdere, per non perderci? «Taglia, getta via da te». Ricordo un lungo pianto attorno alla parola “spazzatura”, con il Nuovo Testamento fra le mani. Dopo un anno di accompagnamento, il direttore spirituale volle leggessi ad alta a voce: «Ma queste cose, che per me erano guadagni, io le ho considerate una perdita a motivo di Cristo. Anzi, ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura» (Filippesi 3, 7-8). Feci l’esperienza di un cuore trafitto, in frantumi.

I presunti migliori hanno un patrimonio di cui si sentono forti, certezze su cui provano a costruirsi un nome, risultati di cui vanno orgogliosi. Per san Paolo queste cose non sono spazzatura in sé: lo diventano per la sublimità di un’esperienza nuova, che fa sbiadire l’affannarsi precedente. Quello di chi vuol togliersi dal mucchio, emergere dandosi un’identità. Rompere con questa corsa è un processo doloroso, un cedimento a caro prezzo, l’uscita da un’insensata competizione.

Tutto preme perché ci si faccia valere, ma «che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la propria anima?» (Marco 8, 36). Da non buttare è solo l’anima, quel mio vero nome pronunciato prima che io fossi e che il Risorto alla fine rivelerà a ciascuno, scritto «su una pietruzza bianca» (Apocalisse 2, 17).

La storia non mi può scartare se so che il mio vero nome è custodito in Dio. Nessuna circostanza farà di me un “rottamato”, un fallito, un rifiuto, perché chi sono non è ancora stato interamente detto. È in questa coscienza – la perfetta letizia – che si impara a non scartare nulla; i particolari prendono valore; con gli altri e con l’ambiente si ristabilisce un equilibrio, seppur ancora tra gemiti e lacrime di una creazione in travaglio (Romani 8).

Per questo i piccoli, quelli che mettono persino le mani tra i rifiuti trasformando in lavoro ciò che i grandi disdegnano, hanno un più acuto senso di Dio. «C’è un messaggio in ciò che mi accade?» chiede Giorgio, che sarà padre. «La pietra che i costruttori hanno scartato ora è pietra angolare» (Salmo 118): è la metafora pasquale per eccellenza.

Il messaggio è il Magnificat, il nuovo inizio è un rovesciamento. Opera del solo che sa vedere oltre i nostri giudizi, che fa essere ciò che non è ancora, che rende padre l’orfano, madre la sterile, principe il povero. Spazzatura è ciò che inquina questa gioia.

di Sergio Massironi