30 aprile 1921: l’enciclica su Dante di Benedetto XV

«Maestro di dottrina cristiana»

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26 aprile 2021

Quest’anno si celebrano i 700 anni dalla morte di Dante. Se risaliamo di un secolo fino al centenario precedente, il vi , ricordato nel 1921, troviamo un legame profondo e direi storico fra l’allora Pontefice, Benedetto XV, e il Sommo Poeta. Vediamo perché. Il 30 aprile 1921, dopo 7 anni di pontificato e a neanche un anno dalla morte, il Papa della «inutile strage» (come aveva bollato la grande guerra) dedica a Dante non un discorso di circostanza né un’udienza pubblica ma addirittura l’undicesima e penultima enciclica, In praeclara summorum, un titolo fiorito e allusivo che si può tradurre Sulle eccellenze dei maggiori (autori, ovvio). Prima di scorrere un po’ il testo, diciamo che siamo davanti a un documento epocale, in rapporto a quel pontificato ma pure alla storia della Chiesa nel Novecento.

Leone xiii si è già pronunciato a favore di Dante, in nome di quel ritorno al tomismo di cui Papa Pecci è ritenuto il grande fautore contemporaneo. Ma a parte ciò, l’enciclica di Benedetto è il primo documento al più alto livello in cui la Chiesa cattolica guardi in modo diretto e approfondito a Dante, e lo faccia inoltre, ed è fondamentale, per elogiarlo e riproporlo con la massima forza.

Non mancano gli apprezzamenti di ordine estetico del poeta fiorentino e della Divina commedia, di cui il Pontefice, vestendosi da critico letterario, loda la «varietà delle immagini», la «vivezza dei colori» e la «grandiosità delle espressioni e dei pensieri». Un «gusto artistico», scrive il Papa, che è stato sempre fonte di «indicibile godimento» per i lettori dell’Alighieri. Tuttavia la parte di gran lunga preponderante del documento pontificio è di ordine teologico e dottrinale, volta a «dimostrare l’intima unione di Dante con questa Cattedra di Pietro», afferma apertis verbis Benedetto, sicché le «lodi tributate a così eccelso nome ridondano necessariamente in non piccola parte a onore della fede cattolica».

Dante si è formato come «discepolo del principe della Scolastica, Tommaso d’Aquino», ricorda il Santo Padre, e alla luce di tale insegnamento, unito alla Scrittura e ai Padri, ha potuto «abbellire il suo immortale poema con la multiforme luce delle verità rivelate da Dio». In definitiva l’autore della Commedia e di altre opere meno grandi ma sempre ricche e rappresentative, va ritenuto «un maestro di dottrina cristiana», che «non ebbe altro scopo», conclude Della Chiesa citando l’Epistolario dantesco, che «sollevare i mortali dallo stato di miseria», cioè di peccato, «e condurli allo stato di beatitudine», cioè alla grazia divina.

Un’altra componente di In praeclara summorum si trova in una certa critica alla cultura di quegli anni, laicista, idealista e crociana, responsabile, agli occhi del Papa, di voler ridurre «tutta la sostanza religiosa della Divina Commedia a una vaga ideologia che non ha base di verità», con la conseguenza di cancellare «nel Poeta ciò che è caratteristico e fondamento di tutti gli altri suoi pregi». Ed è interessante — sempre su questo fronte “polemico”: usiamo l’aggettivo per amor di chiarezza, ma i Papi sono su un’altra lunghezza d’onda — pure un altro passaggio dove, dopo aver apprezzato il fatto che Dante «conservi ancora la freschezza di un poeta dell’età nostra», Benedetto aggiunge che egli è «assai più moderno di certi vati recenti». Il riferimento a D’Annunzio, e agli epigoni del Vate, è trasparente.

Infine, un Papa non poteva non curarsi del versante educativo, pedagogico, scolastico. Al riguardo Benedetto xv auspica che «il poema sacro non sia tenuto lontano dalle scuole pubbliche e sia anzi annoverato fra i libri che devono essere più studiati». Auspicio che sarà oggettivamente accolto dalla prossima riforma Gentile (1923). E che invece è drammaticamente attualissimo nella scuola di oggi, dove la Divina commedia, pur presente fra i libri di testo di diversi indirizzi secondari superiori, è trattata da taluno ai limiti della decenza o del tutto ignorata.

di Mario Spinelli