«Monachesimo interiorizzato» di Antonella Lumini

Eremiti di città

Giorgio de Chirico «L’enigma di una giornata»
26 aprile 2021

All’udienza generale del 21 aprile, Papa Francesco ha menzionato i Racconti di un pellegrino russo, un classico della nostra ascesi cristiana, che porta con sé la severa bellezza della spiritualità bizantina, coi suoi nomi roboanti e misteriosi (Barsanufio il Grande, Filoteo il Sinaita...), la tensione itinerante dei suoi stranniki, le distese algide della Siberia, l’atmosfera sacrale e fiabesca della Santa Russia. Ma porta con sé, soprattutto, l’ideale contemplativo dei tanti Padri e delle tante Madri dei monti, delle caverne, dei deserti. Dei tanti vagabondi, decisi a percorrere, con la bisaccia sul dorso, la Bibbia e un po’ di pane secco, quella che Dostoevskij chiamava «La Grande Strada».

Mentre Papa Francesco ci suggeriva di prendere esempio dalla costanza di «quel pellegrino», che ha appreso l’arte della preghiera ripetendo infinite volte il suo Kyrie Jesù Christé (…) eléisòn me tòn amartolòn, sino al punto di fondere preghiera e respiro in un unico soffio, ci apprestavamo a concludere la lettura sia dei Racconti di un pellegrino russo, sia dell’ultimo libro di Antonella Lumini, Monachesimo interiorizzato. Tempo di crisi, tempo di risveglio (Milano, Edizioni Paoline, 2021, pagine 240, euro 18). Ci è sembrata una coincidenza così incantevole da non riuscire a tacerne.

«Incantevole», diremmo, almeno per due ragioni: una è la coincidenza in sé, il tempismo, la puntualità con cui la vita pare darci cenni coerenti oltre la misura della casualità; un’altra è certamente la saldezza e la contiguità di questi due itinerari, tanto lontani nel «tempo del mondo», quanto vicini nell’unico, stabile momento dello Spirito. E così, in quell’unico «momento» dello Spirito, in quell’unico viaggio tra santuari, monti, monasteri e dentro sé stessi, Lumini e il pellegrino di Nemytov ci sono sembrati così somiglianti e, insieme, così prossimi.

Ad accomunare i due testi è anche la circostanza complessiva in cui questi «fatti dell’anima» si svolgono e le tensioni socio-culturali che si subodorano scorrendo le pagine: Thomas Spidlik definisce il testo di Nemytov (o di qualunque altro ignoto autore vi si celi) «il canto del cigno» di una Russia che sta per crollare sotto i colpi delle Guardie Rosse. Monachesimo interiorizzato, a sua volta, viene pubblicato mentre è in atto un potente processo di purificazione, che sta smantellando tutti i puntelli posti a garanzia di vecchi assetti. In un certo senso, potremmo dire che entrambe le opere, diverse per genere e aspirazione, siano nate in un periodo di “frantumazione” di tutte le contraddizioni prodotte dal loro tempo e conseguentemente anche in un periodo di “gestazione”.

Sia l’una che l’altra tentano di sottrarsi al ritmo disumanizzante che domina il loro tempo e di cogliere un richiamo al silenzio, alla solitudine, che non tutti sono in grado di udire. Si pongono nello stesso atteggiamento di attesa e di affidamento che è proprio del Salmista: «Sto in silenzio, non apro bocca / perché sei tu che agisci» (Salmi 39, 10). È quello che Ratzinger definisce «sabato della Storia», dinanzi al quale l’uomo deve tacere e attendere, lì, nel buio, ove anche la luce «sta in attesa» di una «grandiosa trasformazione». Se ci pensiamo anche il monachesimo cristiano, seppure sorto con l’esperienza anacoretica nei deserti della Siria, dell’Egitto e della Palestina, ha preso a diffondersi in Europa in un periodo di “frantumazione”, in corrispondenza cioè del crollo dell’impero romano col suo rovinoso seguito di decadenza morale e materiale.

Gli eremiti e i pellegrini non soffrono, come noi, di cinetosi (malessere del movimento): non temono il cambiamento, non si chiedono mai se si riuscirà a «tornare indietro», come un po’ tutti facciamo in questi giorni. Essi «stanno» nella vicenda del mondo in una vigile stabilità, che rende subito avvertibile qualsiasi tipo di moto.

Antonella Lumini, che vive una realtà eremitica «atipica», in un appartamento cittadino, si chiede se la crisi che stiamo attraversando non costituisca la condizione opportuna per la germinazione di un nuovo monachesimo, «da vivere nelle nostre case, nelle nostre città», in una forma urbana e domestica di cui ci aveva già parlato in Nuovo monachesimo. Esperienza del solo a Solo, nel 2009, sulla rivista «Appunti di viaggio», quando la grande recessione era ancora fresca e arrembante.

Il monachesimo di cui ci parla Lumini ha una dimensione e una collocazione sempre più interiori; non ci dice di fuggire il mondo, ma di «stare nel mondo senza appartenere al mondo». In fondo, non ci si può distaccare dal mondo se esso è abbarbicato in noi. Occorre trasformarci interiormente «da ingranaggi (…) in pietre vive della legge dell’amore, che è unica e capace di spezzare le rigide catene dei destini». Non dimentichiamo che nel mondo greco il destino ha il carattere della necessità, è l’ordine del mondo a cui tutti, persino gli eroi, devono sottostare.

Nella realtà biblica il destino è un banco di prova da attraversare e infrangere. Cristo è un grande trasgressore delle leggi di necessità, dei meccanismi di causa-effetto, degli automatismi che dominano il mondo. Egli è forza di liberazione dallo spirito del mondo (fa miracoli, frequenta persone emarginate dalle leggi di purità rituale, sbriciola luoghi comuni), ma non ci chiede mai di fuggire il mondo.

Anche dopo la Trasfigurazione, nonostante la richiesta di Pietro di costruire tre capanne, Gesù chiede ai discepoli di «scendere dal monte». «Come tu li hai mandati nel mondo, anch’io li ho mandati nel mondo» (Giovanni, 17, 14-18).

Perciò, la fuga mundi non è indispensabile al monachesimo e neanche alla vera contemplazione. Il verbo contemplare ha in sé, pensiamoci bene, la parola templum, spazio circoscritto. Contemplari e contemplatio hanno subito un torto mai ripagato da Cicerone: è stato lui a tradurre la theoria greca con contemplatio, privandola per sempre di una funzione attiva. In realtà contemplare significa costruire in se stessi quel tempio, cioè quello spazio circoscritto, da dove si può vedere meglio e influenzare meglio il dinamismo della realtà.

Veniamo così nuovamente al punto di partenza, il «monachesimo interiorizzato» di cui ci parla Antonella Lumini, e torniamo anche a «quel pellegrino» di cui recentemente ci ha parlato Papa Francesco. In comune queste due esperienze hanno la risolutezza, la tenacia, la costanza a «sperimentare», «incarnare», «essere». Non è più tempo di moralismo, del dover-essere di fede e di apparato. È il tempo dell’essere. Non più atti di volontà, ma incarnazione di uno spirito nuovo. Non fare la carità, ma essere carità. Non fare silenzio, ma essere silenzio. Non recitare preghiere, ma essere preghiera.

di Roberto Rosano