La ricerca della pace passa dalla cooperazione sul clima

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24 aprile 2021

Sotto l’ombrello dell’accordo di Parigi sul clima i centonovanta Paesi aderenti devono decidere se imboccare la via del multilateralismo autentico — realistica exit strategy dalla crisi sistemica ecologica — o restare prigionieri dello stallo dei compromessi e dei rinvii.

La scelta dello stallo, alla resa dei conti, non porta che al campo dell’egemonia, magari divisa in grandi sfere di influenza ridisegnate dalla svolta del secolo e dalla rivoluzione tecnologica. Nulla di sostanzialmente nuovo, dunque. D’altro lato — come ha plasticamente dimostrato il successo del vertice multilaterale sul clima di Washington — è patrimonio comune una consapevolezza collettiva: il pianeta sta esaurendo se stesso per sostenere un modello di sviluppo destinato al fallimento comune. Sociale ed economico. Il fallimento comune, poi, avrebbe una porta larga: lo spettro dei conflitti armati e della guerra. A Washington il vero successo è stato aver messo allo stesso tavolo virtuale tutti, o quasi, i diversi ed i contrari fra loro. Una strada di cooperazione che, attraverso il dialogo imposto dalla crisi di sistema sul clima, ha tappe disegnate dalle Nazioni Unite: come la conferenza di Kunming a maggio su clima e biodiversità (Cop 15) e quella, sostanzialmente sugli stessi obiettivi, di Glasgow a novembre (cop 26). Kunming, “città della primavera”, nello Yunnan cinese, riunirà i diversi attorno all’urgenza di fare pace con l’ecosistema e salvare la rete di vita della quale facciamo parte: sotto scrutinio gli ultimi dieci anni e un bilancio dei costi ecologici dell’attuale modello di sviluppo, imputato di muoversi in una logica di guerra all’ecosistema. A Glasgow a novembre la conferenza sul mutamento climatico, a presidenza britannica, riunirà Stati, movimenti ambientalisti, attori internazionali, sulle strategie comuni che impongono l’azione — definitiva — già dall’anno in corso.

Il 2021, ha detto infatti il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres, deve essere l’anno dell’azione per fermare la catastrofe ambientale del pianeta. Perché il 2020 è stato, climaticamente parlando, fra i peggiori di sempre, denunciando la tendenza sempre più accelerata verso il punto di non ritorno. E la pandemia, anche questa gestita in ordine sparso e non equo, sta drammaticamente moltiplicando e accelerando gli effetti dell’incendio climatico che scatena cicloni, siccità, fusione dei ghiacci, estinzione di specie animali e vegetali, migrazioni di massa e, in prospettiva, ancora altre pandemie.

In questo momento storico il mondo ha per la prima volta un campo di interesse comune riconosciuto da molti, quasi da tutti. Ogni sfida nazionale — energetica, umanitaria, di sicurezza, sanitaria, di giustizia sociale, economica, militare — riporta lì, alla cura del pianeta e dei suoi abitanti. I paesi responsabili della gran parte delle emissioni globali si sono dati regole di ingaggio e obiettivi comuni, codificati negli accordi sul clima del 2015. Il mondo, poi, ha nelle Nazioni Unite, istituzioni sovranazionali in grado di arbitrare, se non ostacolate, fra interessi nazionali. Ci sono, infine, due grandi attori, Cina e Stati Uniti, che hanno parlato ad una sola voce, sull’argomento, con uno storico comunicato congiunto sottoscritto il 18 aprile a Shanghai dai due inviati per il clima, John Kerry e Xie Zhenhua: l’impegno comune dal quale non è possibile esimersi è «sconfiggere la crisi climatica» con «azioni concrete da mettere in atto nel decennio, in linea con gli obiettivi dell’accordo di Parigi del 2015» cooperando fra di loro e con tutti. Il campo è delimitato, la direzione è indicata. Esiste un canovaccio di obiettivi e regole. Ed esiste un chiaro ed evidente pericolo, comune ai contraenti il patto. Tanto chiaro da unire gli opposti.

Usa e Cina si erano lasciati un mese fa al vertice bilaterale di Anchorage in apparente piena burrasca. Ma l’agenda, al di là del confronto muscolare a favore di telecamera, già indicava l’appuntamento di Shanghai che, infatti, ha dato il frutto promesso da lunghe riunioni a porte chiuse: la presa in carico dell’obiettivo comune, nel perimetro internazionale degli accordi sul clima.

Ma quello della comunità della conferenza sul clima resta, per mille ragioni, un multilateralismo riluttante, anche se obbligatorio. Se la crisi climatica sta compiendo il prodigio di unire molti — Stati Uniti, Cina, Giappone, Unione europea, India, Corea del Sud — nella promessa di ridurre della metà le emissioni e di disinvestire dalle energie fossili (la Ue propone addirittura standard internazionali per finanziare solo fonti di energia eco-compatibili), sono tre i macigni sulla strada della cooperazione multilaterale: il carbone (più accessibile per i Paesi meno ricchi) il gas (giudicato necessario alla “transizione verso il green”), e l’energia nucleare che viene considerata una fonte non discontinua, come eolico e solare, nonostante il fardello nucleare della centrale di Fukushima parli del prezzo a lunga scadenza della continuità.

Dietro ognuno di questi tre macigni ci sono, infatti, le spine dorsali e gli investimenti energetici di Paesi diversi che cercano le strade più adatte agli strumenti che hanno. La stessa Ue ha rinviato a giugno la decisione se inserire nucleare e gas fra le fonti finanziabili. Lo scontro è duro, perché il timore è quello del cosiddetto “greenwashing”, ossia il compromesso troppo sbilanciato per essere efficace. E mentre i riluttanti promettono, la crisi climatica avanza. L’autunno di Glasgow, con la prossima conferenza sul clima che riproporrà il prodigio del consenso al capezzale del pianeta, è già troppo tardi per un anno che avrà visto, all’epoca, un inquinamento record. «Le emissioni globali di carbonio — ha detto il direttore esecutivo dell’Aie, Faith Birol — dovrebbero aumentare di 1,5 miliardi di tonnellate sospinte dalla ripresa dell’uso del carbone nel settore energetico. È un terribile avvertimento: la ripresa economica dalla crisi legata al covid — ha detto — è attualmente tutt’altro che sostenibile per il nostro clima». E qui sta la chiave del consenso e della riluttanza. Se cooperare è un obbligo, il prezzo è caro. E la ricompensa sembra troppo lontana nel tempo.

di Chiara Graziani