Discernimento e fragilità delle coppie

Decidere nella fede

Émile Friant, «Les amoureux» (1888)
24 aprile 2021

Si è svolto il 23 e 24 aprile il Forum sul discernimento in ambito familiare, offerto dai docenti del Diploma in pastorale familiare della Gregoriana in occasione dell’anno «Famiglia Amoris laetitia », coordinato dal Dicastero per i laici, la famiglia e la vita. «La famiglia, oltre a essere il luogo del perdono assicurato, deve essere anche il luogo del discernimento assicurato», ha spiegato il rettore Nuno da Silva Gonçalves, introducendo i lavori: «Non c’è, però, possibilità di discernimento senza vita nello Spirito. Da qui, l’importanza di coltivare la vita spirituale delle famiglie, in primo luogo delle coppie stesse. Solo in questo modo potremo sognare con delle famiglie che siano scuola di ascolto reciproco e di discernimento. Famiglie in cui si impara davvero il linguaggio di Dio». Di seguito proponiamo l’intervento del padre gesuita Giulio Parnofiello, docente del Diploma e presso l’università «La Sapienza» di Roma, e una sintesi del saluto rivolto dal cardinale Farrell ai partecipanti.

Partiamo da un primo interrogativo: cosa significa per noi, come Chiesa, accogliere il contesto attuale, caratterizzato dalla fragilità delle persone e delle coppie? Le analisi in corso ci restituiscono un quadro piuttosto complesso. Certamente la pandemia ha aggiunto alla dimensione personale e a quella familiare una maggiore dose di incertezza, in una situazione già caratterizzata dalla scarsa fiducia verso le istituzioni e dall’insicurezza per il futuro. I rischi e gli elementi di fragilità vanno riconosciuti, ma occorre discernere le opportunità che si dischiudono per orientare scelte e decisioni personali e sociali. Non a caso qualcuno parla di un’avvenuta rimodulazione interna delle relazioni familiari (cfr. Caterina Satta, Una nuova centralità? La famiglia al tempo della pandemia tra ordinarietà e straordinarietà, in Sociologia italiana, 16/2020).

Mai come in questi ultimi mesi è avvenuto l’interscambio continuo tra ambiti interni ed esterni, ma anche i livelli di responsabilità si sono intrecciati: si pensi ai rapporti tra genitori, figli e nonni oppure ai ruoli educativi, trasformati dalla dad, o a quelli socio-lavorativi, modificati dal cosiddetto smart working. Anche i livelli di tensione, soprattutto nella coabitazione continua, si sono acuiti, producendo insofferenza e fatica, non sempre facilmente riassorbibili.

Emerge da questi brevi tratti una rappresentazione della dimensione familiare forse lontana da quella immaginata e sperata in cui ci si sforza, non sempre con successo, di realizzare la comunione possibile. Anche per questo motivo, dal punto di vista ecclesiale, Amoris laetitia si rammarica della presentazione di «un ideale teologico del matrimonio troppo astratto, quasi artificiosamente costruito, lontano dalla situazione concreta e dalle effettive possibilità delle famiglie così come sono» (36). Due, dunque, sono le coordinate di riferimento: l’aderenza alle situazioni concrete e le effettive possibilità delle famiglie nel tempo presente. Come ci ha ricordato a più riprese Papa Francesco, davanti ai nostri occhi non ci sono famiglie “perfette”, anche perché la famiglia “perfetta”, come la comunione piena, è solamente nell’orizzonte escatologico. La famiglia è chiamata a sviluppare nella gradualità la sua capacità di amare fino alla comunione perfetta in Dio Padre, Figlio e Spirito (325). Si tratta di una tensione che va mantenuta viva nella consapevolezza di un’esistenza terrena, segnata dalla fragilità e dal limite: purezza intenzionale e coerenza sono, dunque, condizioni di definitività. A ciò si aggiunge un aspetto di sapore squisitamente evangelico, che è quello di non giudicare le situazioni concrete che si incontrano: la gradualità del percorso d’amore delle persone coinvolte e l’assenza di giudizio di chi sta intorno consentono di vivere la vocazione familiare come cammino di conversione e di maturazione di tutti verso la comunione piena del regno di Dio.

In questo senso, come è nelle intenzioni dell’esortazione apostolica, il matrimonio appare più un dinamico cammino di crescita che un enorme peso da sopportare: «Stentiamo anche a dare spazio alla coscienza dei fedeli, che tante volte rispondono quanto meglio possibile al Vangelo in mezzo ai loro limiti e possono portare avanti il loro personale discernimento davanti a situazioni in cui si rompono tutti gli schemi. Siamo chiamati a formare le coscienze, non a pretendere di sostituirle» (Amoris laetitia, 37). Sono indicati qui due criteri imprescindibili: la coscienza delle persone e la migliore risposta possibile al Vangelo. Quando ci troviamo di fronte alla coscienza vengono in mente le parole di Gaudium et spes: realtà scritta da Dio dentro al cuore, nucleo più segreto e sacrario dell’uomo (n. 16). E ancora: «La dignità dell’uomo richiede che egli agisca secondo scelte consapevoli e libere, mosso cioè e determinato da convinzioni personali, e non per un cieco impulso istintivo o per mera coazione esterna» (n. 17). Una domanda sorge spontanea: quanto della nostra cosiddetta formazione della coscienza aiuta ad agire “secondo scelte consapevoli e libere”? Il rispetto che richiede la coscienza di ciascuno ci mette, poi, di fronte al fatto che nelle situazioni concrete si trovano le persone a cui ci si rivolge. In campo familiare spesso si è di fronte a problemi complicati che non hanno soluzioni semplici: basti pensare ad alcuni divorzi o a seconde unioni che hanno alle spalle i tentativi di riparazione del primo matrimonio, le sofferenze vissute da coniugi/figli e le difficoltà di creare un contesto dignitoso di vita per tutti. Partendo dal punto in cui ci si trova, lo sforzo sarà quello di capire il possibile passo da compiere, anche se non sarà tutto il bene esigibile: sarà la migliore risposta possibile al Vangelo. Fare quello che dipende da noi è quella che chiamiamo “volontà di Dio”: a noi spetta il possibile, a Dio l’impossibile.

Come comunità ecclesiale, dunque, quale responsabilità abbiamo nei confronti delle situazioni di fragilità? Non di rado la responsabilità dei credenti nei confronti delle coppie si limita a un corso di preparazione al matrimonio, presentato magari come un sommario di contenuti e indicazioni di vario genere. Sarebbe opportuna una seria revisione delle proposte offerte, perché siano coerenti con quanto detto finora. In ogni caso, si tratta di misure insufficienti, perché la sfida è da cogliere nei primi anni della vita di coppia, quando il progetto di vita familiare prende forma e si modificano gli assetti esistenziali. Nel suo libro L’amore basta? (Città Nuova, 2020) Francesca Squarcia, avvocato del Foro di Roma e del Tribunale apostolico della Rota romana, afferma che nella coppia non è sufficiente il volersi bene, ma anche il trovarsi bene insieme. Perciò pone tre domande di verifica per la vita coniugale: il matrimonio è una cosa buona per me? Il matrimonio è una cosa buona per me con questa persona? Quale progetto di vita coniugale intendiamo realizzare insieme?

Si tratta, dunque, di valutare nel tempo il coinvolgimento personale, spesso dato per scontato, la capacità empatica e l’effettiva assunzione di impegni nel proprio ambito di vita. La verifica suggerita appare in linea con i tre verbi-chiave del capitolo viii di Amoris laetitia: accompagnare, discernere, integrare. Papa Francesco afferma che lo scopo di questo percorso è «aiutare ciascuno a trovare il proprio modo di partecipare alla comunità ecclesiale, perché si senta oggetto di una misericordia immeritata, incondizionata e gratuita» (297). E qui non ci si riferisce solo a quanti vivono una nuova unione, ma a tutti, in qualunque situazione si trovino. La Chiesa riscopre così la propria vocazione di comunità in cammino, aperta e inclusiva, molto diversa dall’immagine di una Chiesa intesa come l’arca di Noè, elitaria ed esclusiva.

Il primo verbo, accompagnare, significa mangiare con un altro (cum) il pane (panis), condividere la vita, percorrere insieme un viaggio o un tratto di strada. Abbiamo un’immagine stupenda di Gesù in Luca, 24, che si accosta (eggízo) e cammina (synporéuo) con due discepoli verso Emmaus fino a condividere il pasto dove viene riconosciuto nello spezzare il pane. Interessante e significativa è la dinamica. All’inizio Gesù chiede cosa succede e recepisce vissuti esistenziali arricchiti dal desiderio, dal dubbio e dallo sconcerto: il suo è un ascolto senza giudizio o critica. Dopo che essi hanno espresso quanto hanno nel cuore, Gesù dice loro che sono arrivati a una conclusione senza usare la ragione (anóetoi) e lenti nel cuore (bradéis té kardía) nel credere, perciò solo ora si fa interprete (diermenéuo) delle Scritture sul Cristo. Infine, dopo aver camminato e dialogato, Gesù fa come dovesse andare più lontano (porróteron poréuo), manifesta una libertà straordinaria e non si impone ma viene ora invitato a restare con i due compagni, rivelandosi nel gesto che conosciamo. Da Emmaus si può apprendere uno stile di compagnia per la pastorale familiare.

Discernere, il secondo verbo, deriva dal latino cernĕre (separare, accorgersi, capire) e indica uno sguardo che interpone distanza tra elementi che confluiscono in uno stesso oggetto. La pratica del discernimento risale alla tradizione filosofica stoica e platonica (Epitteto, Plutarco) e trova applicazioni significative nell’epistolario paolino ( 1 Tessalonicesi, 5, 21; Romani, 12, 1-2; 1 Corinzi, 12, 10) e nell’ambiente monastico e patristico. Elaborandone una precisa sistematica negli Esercizi spirituali, sant’Ignazio di Loyola pone il discernimento al centro della vita di fede. Non si tratta, comunque, di una tecnica, consistente nell’applicazione di criteri, pur necessari. L’ambito di riferimento è quello della volontà di Dio che non consiste affatto in un programma prestabilito a cui uniformarsi in qualche modo, senza avere i mezzi per conoscerlo, ma rappresenta la pienezza di un’esistenza autenticamente umana alla quale giungere mediante l’esercizio di una responsabile libertà. In altre parole, Dio non ci dice cosa scegliere, perché tocca a noi farlo, ma chiede di inventare creativamente la risposta al Suo amore, da conoscere e accogliere sempre di più nella nostra vita. Si tratta, dunque, di decidere nella fede. Il discernimento è uno strumento privilegiato per vagliare i movimenti interiori e comprendere da dove sorgono e dove portano, imparando a crescere continuamente nella propria libertà, portando a decisioni che vanno accolte con responsabilità.

Il terzo verbo indicato dall’esortazione apostolica è integrare. Esso corrisponde esattamente alla logica della misericordia pastorale, che non mette in ombra il valore del matrimonio cristiano ma consente di percepire la Chiesa non come una dogana ma come «una casa paterna dove c’è posto per ciascuno con la sua vita faticosa» (Evangelii gaudium, 47). Per includere quanti si trovano in situazioni diversificate, spesso anche irreversibili, occorre certamente riconoscere «quali forme di esclusione attualmente praticate in ambito liturgico, pastorale, educativo e istituzionale possano essere superate» (Amoris laetitia, 299). Si tratta di un processo convergente: da un lato, le persone di fatto coinvolte nel discernimento e, dall’altro, la comunità cristiana, chiamata anch’essa a comprendere come aprirsi alla loro accoglienza, rimuovendo gli ostacoli e creando nuovi spazi al suo interno. In fondo, il cammino di conversione è nei due sensi: dalle persone verso la comunità e viceversa.

Rifacendoci al capitolo nono degli Atti degli apostoli, vediamo Saulo che attende digiunando e pregando, dopo quanto avvenuto sulla via di Damasco, e Anania, rappresentante della comunità delle origini, che manifesta la sua difficoltà ad accogliere un persecutore e va verso di lui, chiamandolo fratello. Integrare, dunque, vuol dire fare esperienza di fraternità.

di Giulio Parnofiello


Nell’intervento del cardinale Farrell

La famiglia “antidoto” all’isolamento


Tornare ad «annunciare con coraggio il “Vangelo della famiglia”» perché essa «risponde, meglio di qualunque altra realtà sociale, alla “sete” di dialogo, di relazioni profonde e di comunicazione autentica che molti oggi avvertono». È quanto auspicato dal cardinale Kevin Farrell, prefetto del Dicastero per i laici, la famiglia e la vita, salutando i partecipanti al Forum  in apertura di lavori ieri  pomeriggio.

Rilanciando la centralità della famiglia, il porporato ha denunciato i pericoli sociali  della «pandemia da covid-19. Le norme di distanziamento, la sospensione di eventi pubblici, l’isolamento dei giovani per la didattica a distanza e degli adulti per lo smart-working, la paura dei contagi», ha spiegato, rischiano «di provocare un’inconsapevole chiusura nell’individualismo». Ciò — ha messo in guardia —  può diventare una sorta di inganno: «come se uno cominciasse a dire: non ho bisogno degli altri. Sto meglio senza gli altri». Ma, ha avvertito Farrell, «senza sane relazioni, la psiche e lo spirito entrano  in sofferenza». Da qui «il bisogno vitale di riscoprire e valorizzare i rapporti, lo scambio di vedute, l’amicizia, l’apertura, la condivisione, la cooperazione», ha aggiunto citando l’enciclica Fratelli tutti, in cui Papa Francesco ha voluto sottolineare proprio la «la fraternità e l’amicizia sociale» come dimensioni essenziali dell’essere umano e di ogni società civile.  Del resto, ha aggiunto il relatore, «anche a livello sociale, la pandemia ha fatto emergere  il ruolo indispensabile delle famiglie, che hanno sostenuto le persone nei difficili mesi di isolamento: i più giovani nei percorsi educativi, gli anziani nella fragilità, i disabili nel  bisogno di assistenza, chi ha perso il lavoro con la solidarietà e l’aiuto reciproco e materiale. È dalla famiglia, perciò che bisogna ripartire dopo questa crisi», ha concluso, con un riferimento anche al «discernimento in ambito familiare» oggetto del Forum: un atteggiamento, ha precisato, che non va considerato un “episodio isolato” relegato al tempo del fidanzamento, ma una “disposizione spirituale permanente” da vivere durante   tutto il percorso della vita familiare.