L’avvio, nel 1981, dell’Anno di volontariato sociale raccontato dalla prima responsabile nazionale

Quel tocco femminile
nel cammino della solidarietà

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21 aprile 2021

Compie quarant’anni l’Avs, ovvero l’Anno di volontariato sociale, esperienza proposta dalla Caritas italiana e rivolta alle ragazze tra i 18 e i 26 anni — ma anche ai ragazzi non soggetti agli obblighi di leva — consistente nello svolgere un anno di servizio a tempo pieno e gratuito. Tutto ha preso le mosse dal convegno ecclesiale che si svolse a Roma a fine 1976, promosso dalla Cei, e che nelle conclusioni della commissione di studio chiedeva proprio «di farsi carico della promozione del servizio civile sostitutivo di quello militare nella comunità italiana, come scelta esemplare e preferenziale dei cristiani, e di allargare le proposte di servizio civile anche alle donne». Dopo altri 4 anni di riflessione, nel 1981 si arriva così alla nascita ufficiale dell’Avs, ad opera di quattro ragazze che a Vicenza danno avvio alla prima esperienza del genere, con tanto di mandato ufficiale da parte del vescovo dell’epoca, Arnoldo Onisto. Ben presto si arriva ad almeno cento ragazze in tutta Italia coinvolte ogni anno nel servizio, media che scende a cinquanta negli anni novanta e che ora si è stabilizzata attorno alle settanta unità. L’esperienza è caratterizzata soprattutto da quattro linee portanti, così sintetizzabili: condivisione di vita con i poveri, vita comunitaria, formazione, animazione sul territorio.

Ma riandiamo a quarant’anni fa, alla nascita di Avs, e lo facciamo con Maria Teresa Tavassi, prima responsabile nazionale del servizio Caritas, per ripercorrere anche il clima in cui si generò quella esperienza ancora oggi così particolare e coinvolgente: «Era il clima del post Concilio e dunque di grande entusiasmo, con la volontà di essere in qualche modo utili e valorizzati nella Chiesa e nella società. C’era già l’esperienza dell’obiezione di coscienza e del servizio civile per i giovani, molto importante, ma molte ragazze la vedevano quasi come un’esclusione da un qualcosa che poteva dar loro una grande opportunità di rendersi utili e di imparare qualcosa nella vita, visto che il tutto diventava anche una forma pedagogica di apprendimento proprio attraverso quel servizio di volontariato sociale che durava un anno. C’era quindi una gioia enorme e questo senso di responsabilità che le ragazze sentivano enormemente. Le prime giovani le ho seguite direttamente andando nelle varie diocesi a trovarle, passando anche 7-8 giorni con loro per vivere le esperienze sul campo, camminando insieme, e non certo per fare la responsabile a tavolino».

Guardando il tutto a posteriori, si ha quindi l’impressione di uno “sdoganamento” dell’universo giovanile femminile, di una sorta di “emancipazione”; ma lasciamo che sia ancora la Tavassi a dire se questa impressione è giusta ed opportuna. «Direi di sì, perché in fondo si dava modo di vivere l’esperienza della pace e della non violenza nella forma di un servizio ma con la specificità femminile. C’erano infatti anche dei ragazzi ma la maggior parte erano donne che vivevano proprio questa “sensazione” di dare una caratteristica di prevalente femminilità applicata alla pace, alla non violenza e all’accoglienza della vita intesa non solo come vita nascente, ma anche riguardo ad anziani, psicologicamente disturbati, soggetti con forme psichiatriche anche più gravi». Un percorso che Caritas Italiana non fece da sola «perché — come ricorda e rimarca Maria Teresa Tavassi — subito dopo quel convegno del 1976 decidemmo di lavorare insieme ad associazioni e gruppi che già operavano a livello nazionale con i giovani, tipo Azione cattolica, Agesci, Gioc, Capodarco, Agape di Reggio Calabria, salesiani, Sant’Egidio. Cominciammo con loro a riflettere per capire quali caratteristiche poteva avere questo servizio e le decidemmo insieme, pensando così di inserire queste giovani a livello diocesano in piccoli gruppi, in comunità, per autogestirsi a seconda delle specificità delle Chiese locali e del servizio che dovevano svolgere; poi ci incontravamo con questi gruppi per vedere come procedeva un’esperienza che intanto si diffondeva da nord a sud. Guardammo anche alle esperienze simili di altre nazioni come Germania e Austria, diverse dalle nostre ma il cui confronto fu comunque utile. Senza dimenticare l’allargamento ad un discorso ecumenico, con il coinvolgimento delle Chiese evangeliche. Come venimmo accolte? La reazione fu senza dubbio positiva in quelle realtà dove queste esperienze funzionavano bene, a Vicenza appunto ma anche nel resto del Veneto o a Milano. Si vedeva che quelle ragazze svolgevano un servizio utile e con entusiasmo; d’altro canto il volontariato in quegli anni era un po’ all’inizio. Io dopo 5-6 anni ho lasciato per dare spazio ad una giovane che aveva fatto l’esperienza di un anno di volontariato e che dunque poteva continuare a seguire il tutto mentre io ormai avevo quarant’anni, anche se ho sempre continuato a lavorare in Caritas con responsabilità diverse».

Viene da chiedersi quanto questo servizio oggi sia ancora attuale, visti i cambiamenti della società, pre e post-covid, e delle stesse ragazze che oggi magari hanno altri interessi ed esigenze. Tavassi, anche se come detto non segue più direttamente l’Avs, offre comunque questa riflessione dall’alto della sua competenza: «Sicuramente questo è un momento di grande difficoltà nella società. Considerando che l’Avs è anche un’espressione di cittadinanza attiva, direi che è importante che le giovani si sentano protagoniste e vivano da protagoniste un cambiamento sociale come quello attuale. E che lo facciano profondamente, a contatto con la realtà, perché solo standoci dentro si può capire e vedere quale ruolo si ha. Ed è un ruolo che deve essere attento e anche molto discreto per camminare con le persone, non per farle camminare in un certo modo o spingerle».

Per la Chiesa, invece, è anche e soprattutto il momento di quel grande ospedale da campo profetizzato da Papa Francesco «e allora — conclude la prima responsabile nazionale dell’Anno di volontariato sociale della Caritas — il significato di questa esperienza è ancora più grande, perché penso che il Pontefice ha riportato un po’ lo spirito del Concilio e in base a questo si potrebbe fare qualcosa di importante nella società e nella Chiesa, perché il Papa non vede una distinzione tra le due cose, non è che io opero nella società e non fornisco un apporto alla Chiesa. E poi mi sembra che questo sia anche il momento giusto perché il volontariato adesso ha una funzione particolare. Porto l’esempio del mio lavoro in un gruppo che è diventato completamente diverso dopo la pandemia: adesso facciamo altro, come il seguire le persone una per una, per cercare qualche forma di inserimento sociale e lavorativo, perché è la cosa che oggi serve di più».

di Igor Traboni