Angela Bianchini a cento anni dalla nascita

Come voci di conchiglie

 Come voci  di conchiglie  QUO-090
21 aprile 2021

Ricorre oggi il centenario della nascita di Angela Bianchini. È bello ricordarla in occasione di un compleanno che, sia pure in assenza, ci riporta la ricchezza, la vitalità, la giovinezza dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti perché Angela, fino all’ultimo giorno dei suoi novantasette anni, è rimasta fermamente e consapevolmente dentro la vita. Affabile, garbata di modi, un’eleganza discreta come il filo di perle che portava al collo, una riservatezza che non era aristocratica separazione ma esercizio quotidiano di libertà, Angela è stata l’espressione di una civiltà frutto di impegno, rigore, passione che custodiva una memoria letteraria alta e dove non c’era posto per le scorciatoie e le astuzie, né per quei libri che definiva “stagionali”.

Saggista e romanziera, studiosa di letteratura inglese, spagnola e latino-americana, Angela Bianchini è stata anche finissima traduttrice e collaboratrice per oltre quarant’anni del quotidiano «La Stampa» dove, come disse Luciano Genta, offrì «un osservatorio sulla letteratura ispanoamericana, sempre in spirito di servizio al lettore (…) senza cedimenti né agli snobismi dello specialismo, né alle mode e infatuazioni del mercato».

Determinata, curiosa e instancabile ha percorso con entusiasmo tante strade dell’attività creativa alternando, cosa che riesce a pochi, ermeneutica e invenzione con pari felicità di risultati. Dall’esordio nel 1962 con Lungo equinozio attraverso Le nostre distanze (1965), La ragazza in nero (1990), il premiato e tradotto Capo d’Europa (1991), la narrativa si intrecciò sempre con i saggi, Cent’anni di romanzo spagnolo (1963), Il romanzo d’appendice (1966), Voce donna (1979), Amare è scrivere (2013), solo per citarne alcuni. Costante poi l’attenzione dedicata all’universo femminile che Angela, con un’immagine poetica di grande suggestione, amava paragonare a una conchiglia: «portandola all’orecchio (…) si riesce a coglierne un brusio segreto, una sorta di mormorio. Sono le donne che si rispondono di secolo in secolo, da una civiltà all’altra».

Nel 1941 fu costretta dalle leggi razziali a lasciare l’Italia per gli Stati Uniti dopo un avventuroso viaggio che l’aveva portata a Lisbona, allora crocevia di destini di tanti perseguitati, carichi di un dolore che si gonfiava al vento forte dell’Atlantico. Nel Dipartimento di Lingue Romanze dell’università Johns Hopkins a Baltimora riuscì a riannodare i fili della sua esistenza interrotta, dedicandosi agli studi e vivendo pienamente quel senso di comunità che univa i tanti che si erano lasciati alle spalle un’Europa incendiata dalle violenze del fascismo e del nazismo. Un destino condiviso che legava con naturalezza esistenze diverse e alimentava il desiderio di accogliere chi portava luci di civiltà e con la sua presenza mitigava la pena del distacco, il vuoto della perdita, il timore del futuro.

Anni dopo dall’esperienza dell’esilio nasceranno tre volumi preziosi che avrebbero rivelato il suo grande talento di ritrattista. Un’arte di raccontare gli altri fatta di una scrittura di smagliante, incisiva freschezza, di rapidi e accurati tocchi di colore, di dettagli capaci di rivelare una vita. I primi due volumi recano il titolo ariostesco e sofferto di Spiriti costretti (1963; 2008); per il terzo, che è anche il suo ultimo libro, aveva scelto il più sereno Incontri (2016) perché, come spiegò lei stessa, il tempo si era aggiunto al tempo, con gli anni le esistenze di tanti personaggi narrati avevano guadagnato in slancio e ampiezza e alcune si erano concluse.

«Chi è stato in esilio porta per sempre dentro di sé l’esilio» scriveva Jaime Salinas. Forse è vero per molti, ma è un po’ meno vero per Angela. Certamente l’esperienza dell’esilio l’aveva segnata, ma ad aiutarla a non smarrirsi furono la capacità di guardare sempre alla vita, la fiducia nei vincoli umani, la determinazione a costruire il futuro. Quei giorni sconsolati riuscirono a essere nonostante tutto fecondi e molti anni dopo sarebbero diventati pagine di storia, di grande letteratura e di testimonianza morale.

Da Borges ad Allende, da Rafael Alberti a tutta la straordinaria comunità di letterati spagnoli esuli dal franchismo, tra i quali Jorge Guillén, Pedro Salinas, Zenobia Camprubí, Juan Ramón Jiménez, quella España peregrina così drammaticamente provata eppure determinata, come scriveva Angela, a esistere e a sopravvivere. Tra gli incontri, tutti bellissimi, due indimenticabili. Giorgio Levi della Vida, grande orientalista, che prima di lasciare l’Italia per l’esilio fu uno dei dodici, tra oltre milleduecento accademici italiani, che nel ‘31 si rifiutò di prestare giuramento di fedeltà al regime, un no che gli costò la cattedra e il licenziamento. E ancora un altro grande, il filologo Leo Spitzer, amatissimo maestro di Angela, la cui figura avvolta in una mantella nera si staglia nell’ambiente magico del suo studio pieno di libri, dove il fumo delle sigarette, alla luce del sole che entrava da una grande vetrata, diventava polvere d’oro.

Angela non mi parlò mai di vecchiaia e di morte, se non una volta. Eravamo appena tornati dal Salone del Libro di Torino dove quell’anno, era il 2012, avevano celebrato la sua vita lunga e operosa di scrittrice con un omaggio toccante e di alto profilo. Un pomeriggio mi raccontò di Spitzer che amava così tanto Forte dei Marmi da voler restare vicino a quel mare per l’eternità. Quanto a lei, aggiunse, sperava che la fine arrivasse in silenzio. Quel giorno — era seduta come sempre sulla poltrona accanto alla finestra dove trascorreva il tempo da quando le gambe non la sostenevano più — dopo aver parlato si girò a guardarmi e si accorse dei miei occhi lucidi. Mi sorrise quasi a scusarsi di quella malinconia di parole, mi carezzò la mano e da allora non mi parlò mai più di andarsene. Quella piccola illusione di eternità che inventò per me, la sento come un dono del suo cuore affettuoso e gentile. Mi manca molto la sua presenza, anche se mi dà conforto pensare che tutti e due sono stati accontentati. Leo Spitzer se ne andò un mattino di settembre del 1960 nella mitica Pensione Elena di Forte dei Marmi che insieme al Caffè Roma, il cosiddetto Quarto Platano, era luogo di incontro di scrittori e artisti attratti dagli incanti estivi di quella terra di Versilia fatta di mare, sabbia, montagne e marmo. Angela si è addormentata per sempre nella sua casa romana, un sonno generoso che le ha risparmiato di scivolare verso la fine.

Oggi la immagino in un giardino luminoso circondata dai fiori esuberanti e coloratissimi delle ortensie da lei predilette, il sorriso gentile sulle labbra, un libro tra le mani. E mi risuona nella mente un verso del suo amato Pedro Salinas: «che la corporea/ passeggera assenza/ non sia per noi dimenticanza».

di Francesca Romana de’Angelis