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Benedetta rivoluzione

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21 aprile 2021

In Tanzania i missionari occidentali stanno lasciando il posto a una nutrita schiera di preti autoctoni grazie al fiorire delle vocazioni 


Nei villaggi più profondi della Tanzania il vero effetto del boom delle vocazioni è rappresentato dal volto di un prete: quello di un parroco tanzaniano che, anche più di due volte al mese, celebra la messa, distribuisce l’eucaristia e porta conforto e consolazione. Una novità copernicana, se si pensa che, fino a non molti anni fa, in quegli agglomerati fatti di case e baracche, enormemente distanti dalle città e tagliati fuori da qualsiasi spinta alla modernizzazione metropolitana che sta interessando il Paese dell’Africa orientale, un sacerdote veniva avvistato a malapena una volta al mese: ed era sempre un missionario “bianco” e occidentale.

Ora i missionari “bianchi” e occidentali sono sempre meno e hanno lasciato il posto a una nutrita schiera di preti autoctoni frutto di un numero sempre più alto di giovani e giovanissimi che rispondono, con amore e abnegazione, alla chiamata di Dio. Negli ultimi dieci anni la quantità degli aspiranti sacerdoti è aumentata a tal punto che la Conferenza episcopale locale ha deciso di costruire un nuovo seminario maggiore nella diocesi di Kahama: il «Nazareth Major Seminary» avrà una dimensione nazionale e ospiterà almeno cinquecento seminaristi; ogni diocesi ne invierà almeno quattro. La voce di don Leonard Maliva, vicepresidente nazionale dell’Unione apostolica del clero e parroco della zona di Ismani, assume un tono ancor più soddisfatto quando spiega che a confermare i vescovi nella loro decisione è stato anche un particolare, forse mai registrato prima d’ora: «Nei seminari maggiori locali, presenti in ognuna delle sette arcidiocesi, i posti sono totalmente esauriti da almeno cinque anni. Il nuovo seminario maggiore era un’impellente necessità».

Nel cuore dei giovani tanzaniani s’è fatto strada, prepotentemente, un desiderio: quello di farsi prete. Ma com’è stato possibile? Cosa li spinge a voler servire per sempre Dio e la Chiesa? Una delle possibili risposte può essere rintracciata nel fatto che «l’evangelizzazione è diventata più vicina alla gente», come ama ripetere padre Maliva: «Nel tempo, le parrocchie sono aumentate di numero e dimagrite per estensione. Prima, un parroco doveva badare a una parrocchia molto grande e riusciva a visitare i suoi parrocchiani una volta al mese, se andava bene. Ora la gente lo vede anche due volte al mese». E questa non è una rivoluzione da poco, anche perché il parroco non è un missionario occidentale ma sempre più spesso un sacerdote diocesano, tanzaniano: «I ragazzi stanno vedendo più sacerdoti africani e stanno comprendendo che anche per loro è possibile percorrere quella strada. Non è riservata ai bianchi».

Le vocazioni adulte sono quasi inesistenti, anche se cominciano ad affiorare quelle di ragazzi neolaureati che entrano in seminario: «Alcuni di essi — spiega il parroco — avevano iniziato il percorso nel seminario minore ma lo hanno abbandonato. Poi, però, una volta presa la laurea, ci hanno ripensato e hanno voluto riprendere il cammino nel seminario maggiore. Davvero una grazia».

Se, fino a venticinque anni fa, la quasi totalità di chi entrava nei seminari minori lo faceva per “rubare” un bagaglio di cultura e di sapere per poi abbandonare un attimo prima di diventare sacerdote, ora la percentuale si è invertita: «Oggi, dato che nel Paese ci sono tante scuole governative e private, chi entra nei nostri seminari lo fa perché vuole davvero essere sacerdote. Le cose sono del tutto cambiate». In Tanzania, come del resto in tante altre nazioni africane, la parrocchia è il centro dove ruota la gran parte dell’esistenza dei villaggi e delle città: ecco cosa affascina ancora della vita religiosa. «Qui i sacerdoti — è ancora don Leonard a parlare — hanno un ruolo anche sociale. Un prete si prepara non solo per guidare spiritualmente i suoi parrocchiani ma per sostenerli anche socialmente. I ragazzi si accorgono che un prete è molto impegnato nella sua missione, nel suo apostolato, e ne sono attratti. Lo percepiscono come un solido punto di riferimento».

Che la Chiesa sia da sempre in prima linea per la costruzione di un Paese migliore, lo si capisce anche dal fatto che chi abbandonava i seminari senza diventare prete rimaneva, da buon cristiano, come linfa attiva nella società. Maliva svela, infatti, che l’ex presidente della Tanzania, morto recentemente, è stato un seminarista così come tanti ministri, giudici e poliziotti. «Tutte persone — spiega — che vogliono aiutare nella crescita e nello sviluppo». Se si prova a immaginare il futuro dell’evangelizzazione, non si può prescindere da ciò che la Tanzania in realtà è: uno Stato dove il 70 per cento della popolazione vive nei villaggi e solo il 30 per cento nelle città. Dunque, l’annuncio della Parola di Dio non può non tenerne conto. Il vicepresidente nazionale dell’Unione apostolica del clero lo sa bene: «I seminaristi devono essere preparati a vivere sia nei villaggi sia nelle città. Ma non solo: in Tanzania ci sono circa cinquanta milioni di abitanti e tra essi ci sono cristiani di altre denominazioni nonché musulmani. L’evangelizzazione dovrà essere improntata anche all’ecumenismo e al dialogo interreligioso». Una sfida entusiasmante soprattutto per quattro diocesi, come quella dell’isola di Zanzibar o di Tunduru-Masasi, dove gli abitanti sono in maggioranza musulmani e i seminaristi maggiori si contano sulle dita di una mano. «Per ora c’è un richiamo dei vescovi che ammettono che un ragazzo di quelle zone possa andare a studiare nei seminari di altre diocesi. Del resto, i sacerdoti che sono lì appartengono ancora a delle congregazioni o sono fidei donum di altre regioni».

Ma alla fine le cose andranno bene: «C’è solo bisogno di tempo», sussurra Leonard Maliva, con una voce che trasmette gioia e speranza.

di Federico Piana