Umorismo virtù cristiana

Anche lo humour
produce conversioni

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21 aprile 2021

Pubblichiamo la prefazione scritta dal cardinale Archivista e bibliotecario di Santa Romana Chiesa per il libro del cardinale Seán Patrick O’Malley, arcivescovo di Boston, «Cercasi amici e lavapiedi» (Milano, Paoline, 2021, pagine 256, euro 19).

Se, in un’indagine sulla vita spirituale, si chiedesse a che cosa associamo le idee di penitenza e conversione, sono sicuro che la risposta della maggioranza sarebbe: al dolore per il male commesso, al rimorso e alle lacrime. La tradizione trabocca di esempi di questo tipo, e sappiamo tutti — se non altro per esperienza personale — che questo atteggiamento è di assoluta efficacia nel cammino di trasformazione interiore. Lo conferma anche ampiamente la Sacra Scrittura, come emerge ad esempio in un incisivo capitolo del profeta Gioele, che si legge all’inizio della Quaresima: «Ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti... Tra il vestibolo e l’altare piangano i sacerdoti...» (2, 12.17). O come risuona in una delle beatitudini del Vangelo: «Beati voi, che ora piangete» (Luca 6,21). Per cui l’importanza del dono delle lacrime si è spontaneamente trasmessa alla spiritualità cristiana e il pianto è divenuto espressione di quella «tristezza secondo Dio» (2 Corinzi 7,9) che — come Origene ha chiarito per primo — non coincide con la sofferenza volontaria ma con «un dolore ininterrotto causato dal dolore per il peccato». Per secoli la liturgia ha conservato preghiere come questa, con una implicita supplica di ricevere il dono delle lacrime: «O Dio, concedici di versare lacrime in abbondanza sui mali che abbiamo commesso, cosicché possiamo meritare la grazia della tua consolazione». Le pratiche di compunzione erano (e ancora sono) considerate un prezioso test per vagliare l’anima, un itinerario che ci porta a riconciliarci con la volontà di Dio.

Una volta il filosofo Emil Cioran scrisse che il più grande dono della religione potrà essere solo questo: insegnarci a piangere. E spiegò: «Sono le lacrime a poterci rendere santi, dopo che siamo stati umani». Il che è vero, ma non in assoluto. Il difetto di una certa rappresentazione della spiritualità cristiana è appunto consistito nell’indicare la «tristezza secondo Dio» non come un mezzo ma come un fine, perdendo praticamente di vista l’esperienza della grazia divina, della misericordia e della redenzione.

Tuttavia, quando ci si imbatte nella predicazione del cardinale Seán O’Malley — di cui i testi raccolti in questo libro forniscono un eccellente esempio —, un elemento balza subito all’occhio: l’intento è anche quello di facilitare la conversione, però lo strumento scelto allo scopo è lo humour. Fatto che dimostra l’ampiezza, l’originalità e l’acume della sua saggezza. Non si tratta di quell’umorismo banale e innocuo che viene spesso ripetuto a pappagallo. Basta leggere la prima delle scenette riportate dal cardinale per accorgersi dell’arguzia messa in campo. In un’area rurale, c’era un vescovo che celebrava ogni mattina la Messa in cattedrale. Uscendo di cattedrale, poco prima di attraversare la piazza, notava sempre un uomo di nome Santiago steso su una panchina, sporco, malandato, coperto di vecchi giornali. Il poveraccio, che puzzava di alcol e aveva gli occhi iniettati di sangue, ogni volta si alzava per salutare il vescovo con grande affetto. Finché una volta, uscendo sulla piazza, il vescovo rimase colpito nel notare l’assenza di Santiago. Passarono le settimane, finché un giorno incontra Santiago che passeggia per strada, e a tutta prima nemmeno lo riconosce. Barba e capelli fatti, un abito pulito, scarpe nuove, e una Bibbia sotto braccio. «Che ti è successo?», fa il vescovo. E Santiago: «Sono stato salvato!». Il vescovo si congratulò con lui e si accomiatò con un saluto. Passò un altro mese e il vescovo, uscendo di chiesa, rivide Santiago in condizioni deplorevoli, di nuovo buttato là sulla solita panchina. «Santiago, ma che è successo?». «Monseñor, sono tornato all’unica vera Madre Chiesa!».

È un genere di umorismo che diverte, sì, ma allo stesso tempo lascia di stucco perché scava tunnel nella trincea delle nostre certezze, rimette in discussione gli ordini che seguivamo come sonnambuli, scuote la nostra «buona» coscienza, abbatte i luoghi comuni a cui spesso riduciamo l’esperienza religiosa. Le battute del cardinale O’Malley non intendono essere amene. Magari lo saranno anche, ma lo scopo è tutt’altro: è quello di rompere il nostro guscio esponendoci nudi come siamo, aiutandoci a rinunciare alla tentazione gnostica o manichea di staccare l’azione della trascendenza dalla nostra realtà concreta, con tutta la sua rozzezza, la sua ignominia, i suoi rottami. Il peggio del peggio sarebbe vivere in un mondo di pure apparenze, senza mai permettere alla grazia di Dio di intaccare le nostre verità.

I testi di O’Malley, così come le sue omelie, hanno tre segni particolari che rendono facile identificarlo. Il primo è quello già accennato: l’uso dello humour come veicolo di saggezza, dove ritroviamo sia la semplicità e l’umanità tipica del frate cappuccino sia la capacità critica di smantellare ogni discorso di auto giustificazione, che spesso caratterizza i credenti. Qui il cardinale si muove sulle orme di una serie di grandi autori nordamericani, a cominciare dalla scrittrice cattolica Flannery O’Connor. Questa era solita ripetere che «quanto più uno scrittore intende rivelare la dimensione soprannaturale, tanto più dovrà rendere in maniera realistica il mondo naturale perché, se i lettori non accetteranno il suo mondo naturale, di certo non ne accetteranno un altro». Per quanto riguarda poi O’Malley, vorrei aggiungere un ulteriore elemento: la tradizione umoristica del cosiddetto risus paschalis, ossia quell’antica usanza per cui, nelle prediche di Pasqua, si divertivano e facevano ridere i fedeli con aneddoti o barzellette, come per diffondere ovunque la gioia della Risurrezione. E davvero nell’opera di Seán O’Malley si sente soffiare un vento di Pasqua. È lui stesso a ribadire che la dinamica pasquale produce una totale inversione di marcia nel nostro modo di celebrare la fede, come esprime questo breve dialogo mistico:

Un uomo chiese: «Ho commesso molti peccati. Se mi pento, Dio mi perdona?». Il mistico rispose: «No. Tu ti penti se lui ti perdona».

Un’altra caratteristica fondamentale nei testi dell’attuale arcivescovo di Boston è l’uso della prima persona singolare, dato che non procede mai per astrazioni, ma si radica a fondo nella sapienza cristiana. L’autore si espone in prima persona, parla di sé e della propria biografia spirituale, racconta di incontri fatti, reinterpreta gli eventi, legge nel tempo i segni del Cristo. Come afferma la Prima lettera di Giovanni: «Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita... noi lo annunciamo anche a voi» (1, 1.3). Si tratta quindi di un discorso esistenzialmente impegnato, e che stimola lo stesso impegno da parte del lettore. Per O’Malley le parole non sono un velo dietro cui nascondersi, bensì un esercizio diretto, un dialogo in pratica, il soffio stesso della vita. Abbiamo sempre la sensazione di trovarci seduti accanto a lui a conversare. Il risultato è che, qualunque sia l’argomento, diventa subito rilevante per chiunque. In questo volume, ad esempio, si trovano varie riflessioni sul ministero episcopale e sulla missione della Chiesa, eppure appare evidente che è un libro pensato per tutti.

La disponibilità dell’autore a parlare per esperienza diretta ci consente inoltre di scoprire l’unicità della sua personalità, rimanendo affascinati dall’ampiezza della sua esperienza pastorale e dalla bellezza dei rapporti umani che ha saputo intessere negli anni. Ci accorgiamo di quanto sia vasta la sua cultura, le sue letture; pur non facendone per nulla sfoggio, la sua erudizione viene comunque alla luce. Riusciamo in qualche modo a percepire la sua libertà interiore e insieme la vibrante sapienza evangelica che riecheggia in lui.

Ma forse il motivo principale — il terzo tratto caratteristico delle sue parole — è il suo amore per la parola di Dio. Come il cardinale stesso ci ricorda, è tramite la Parola che Dio si rivolge a noi. E noi siamo chiamati a vivere scrutando continuamente le Scritture per cercare in esse la voce e il volto di Dio (Giovanni 5, 37—39). Proprio questo, lo studio della Parola di Dio, è il primum officium, il primo compito che dobbiamo assumerci. È dalla Parola che tutto ha inizio. È la Parola la sorgente inesauribile della conoscenza di Cristo. Ed è per questo che il cardinale O’Malley precisa subito che dobbiamo «cadere in ginocchio per percepire la Parola di Dio», e che la nostra deve essere una «teologia in ginocchio». Credo sia questo il segreto che fa di lui uno dei maestri della nostra epoca.

E chiunque leggerà questo libro non potrà che trovarsi d’accordo!

di José Tolentino de Mendonça