A distanza di 10 anni dalla promulgazione della legge 62/2011, in Italia di case protette per detenute madri ce ne sono solo due una a Roma e l’altra a Milano

Per crescere insieme

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20 aprile 2021

Una villa bella ed elegante con un grande giardino intorno, pini altissimi e alberi di ulivo. Si tratta di una casa famiglia protetta per donne che devono scontare una pena e che hanno bambini piccoli. Si chiama La casa di Leda, in omaggio a Leda Colombini, una vita a favore dei diritti dei detenuti, soprattutto di quelli delle mamme con figli fino ai 3 anni, ospiti anche loro del carcere. È stata lei l’ispiratrice della legge 62/2011, che ha istituito strutture esterne di tipo familiare comunitario destinate sia all’espiazione di misure cautelari che di misure alternative, con l’obiettivo di assicurare un sereno e armonioso sviluppo a quei bambini i cui genitori hanno compiuto reati. Secondo i dati del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, al 31 dicembre 2020 le madri detenute in carcere o negli Icam (Istituti a custodia attenuata) erano 30 con 33 bambini. Di case protette, a distanza di 10 anni dalla promulgazione della legge, ce ne sono solo due, una a Roma e l’altra a Milano.

La Casa di Leda, una struttura confiscata alla mafia, si trova all’Eur, un quartiere esclusivo della capitale, e ha avuto un inizio di percorso un po’ travagliato. I residenti del quartiere, infatti, «quelle delinquenti», qui, proprio non ce le volevano. E così, quando si è sparsa la voce, hanno protestato in tutte le forme possibili: lettere ai giornali, interventi nelle commissioni consiliari del comune e nelle assemblee pubbliche del municipio e persino un ricorso al Tar. Una battaglia durata sei mesi condotta con una paziente operazione di mediazione dal responsabile della struttura, Lillo Di Mauro, che ha portato all’apertura delle porte nel marzo 2017, a fronte di una convenzione con il ministero della giustizia datata 2015. La Casa, gestita dalla cooperativa Cecilia in Ati con le associazioni Pronto Intervento Disagio e Ain Karim ha sei stanze con bagno in cui abitano 6 donne e 10 bambini, da pochi mesi di vita agli otto anni.

«Si tratta di donne autrici di reati minori: traffico di droga, scippi, furti in appartamento, prostituzione, commessi per accrescere il benessere economico proprio e della propria famiglia o perché costrette dalla propria cultura sociale», spiega Lillo Di Mauro, responsabile dell’Area giustizia della cooperativa Cecilia. «Il nostro servizio consente al bambino di vivere in un ambiente fisico e psichico adeguato alla sua crescita e alla madre di acquisire o rafforzare la capacità di gestire una relazione equilibrata con il figlio». Per cui, scolarizzazione (i bambini vanno al nido o a scuola), tirocini formativi, sana alimentazione (il pane è fatto in casa dalle stesse ospiti, che si alternano nei lavori di casa). Ora, grazie a un bando del Dipartimento delle Politiche della Famiglia, l’Ati si è aggiudicata un finanziamento che le consente di intraprendere la seconda fase del progetto educativo, il raggiungimento di un’autonomia reale della donna dopo l’uscita dalla Casa, intervenendo sia sul territorio di provenienza, sia sui componenti della famiglia di origine.

Il sostegno economico è la nota dolente di queste strutture per le quali la legge non ha previsto copertura finanziaria. «Per due anni abbiamo avuto un contributo da Poste italiane, ora ne abbiamo uno della Regione attraverso l’Ipab Asilo Savoia. Le utenze le paga il comune ma andiamo avanti con fatica», continua Di Mauro. «Questa struttura comporta spese ingenti ed è necessario creare una rete di solidarietà nel quartiere per continuare a sopravvivere».

La fatica però viene ripagata dalle gratificazioni. Nell’ultimo periodo sono nati tre bambini. «È stato un Natale molto gioioso», sorride Di Mauro, e ci sono i riscontri del lavoro svolto dagli operatori, tra cui due psicoterapeute e quattro educatori professionali. «C’è una donna in particolare che ha fatto un percorso straordinario. Di etnia rom, veniva picchiata dal marito. Così, il tribunale le ha concesso di espiare la pena nella casa protetta. Ha due bambine bellissime. Ora lavora come signora delle pulizie all’ospedale Sant’ Eugenio. Fra poco uscirà. Un po’ ci dispiace, ma continueremo a seguirla».

La Casa protetta di Milano, gestita dall’associazione Ciao, è situata all’interno della parrocchia Santi Quattro Evangelisti, in zona Ripamonti, a sud della città. La convenzione con il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria e il Comune di Milano è del 2016 ma già dal 2010 la Casa ha cominciato a ospitare le prime mamme. Attualmente, ci sono cinque donne e cinque bambini, dai 4 ai 10 anni. Sono per lo più straniere, vengono da Perú, Santo Domingo, Marocco, Romania, Filippine, Lituania, Nigeria. «Una buona fetta di mondo» commenta il direttore Andrea Tollis. «Hanno storie molto difficili alle spalle, sono autrici di reati ma anche vittime di violenza, alcune sono totalmente analfabeti. Hanno una fragilità enorme ma una capacità straordinaria di resistere alle avversità». Il personale è composto da specialisti, come criminologi, psicoterapeuti, psicologi, oltre che da educatori professionali. «Con le ospiti costruiamo un progetto che mira a un loro reinserimento nella società. Le aiutiamo a prendere coscienza di se stesse. Non è facile. Pensiamo a quelle di etnia rom, maturano la convinzione di non poter più rientrare nel loro ambiente ma staccarsi è estremamente difficile. La cura dei figli è importante, ha qualcosa di terapeutico per loro, le aiuta a responsabilizzarsi, a rispettare gli orari; è uno strumento forte per guardare avanti».

La casa dispone di tre appartamenti in ognuno dei quali vivono due mamme con i propri figli. Oltre a gestire autonomamente il loro appartamento, le ospiti sono coinvolte nella manutenzione ordinaria dell’intera Casa. «Ci tengono a che sia tenuta bene, lo considerano il loro nido, e sono loro stesse a sollecitare gli interventi anche perché qui passano un periodo lungo, una media di un anno e mezzo», spiega Tollis.

Sul territorio, l’associazione dispone di altri appartamenti dove le donne sono accompagnate nel percorso di autonomia. «È fondamentale che fuori ci sia una comunità che accoglie e non discrimina. Le signore vanno a fare la spesa al supermercato o a prendere un caffè al bar e tutti sanno chi sono. Ora faremo laboratori aperti alla cittadinanza per abbattere le barriere culturali. Inoltre accogliamo lavoratori di pubblica utilità, volontari, tirocinanti, studenti e persone in messa alla prova». Si creano forti legami di affetto. Soprattutto con i bambini. «Li vedi crescere e vederli andar via, alla fine del percorso, non è facile. Le figure maschili sono poche e così succede che si attacchino molto a me che sono l’unico uomo. Hanno bisogno della figura paterna. Per questo, quando è possibile, il magistrato dispone l’incontro con il padre detenuto nella casa invece che nel carcere». Anche i due figli di Andrea Tollis e della moglie, Elisabetta Fontana, presidente dell’associazione, partecipano alla vita comunitaria e fanno amicizia con i bambini della Casa. Il più piccolo, in particolare, aveva legato con un bimbo peruviano. Quando il ragazzino è tornato nel suo Paese gli ha scritto un biglietto «Mi mancherai tanto».

Anche la struttura di Milano, come quella di Roma, va avanti grazie all’impegno dell’associazione che la gestisce, sempre alla ricerca di fondi da parte di fondazioni o di contributi statali. Ora, però, le cose dovrebbero cambiare. L’ultima Legge di Bilancio ha istituito un fondo di 1,5 milioni di euro per ciascuno degli anni del triennio 2021-2023 da destinare alle case famiglia protette. Questo consentirebbe di far uscire dal carcere tutti i bambini detenuti e di consentire loro la crescita in un luogo dove non ci sono né sbarre né lucchetti.

di Marina Piccone