Ufficio oggetti smarriti

Dall’altra parte dell’acqua

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20 aprile 2021

«Hai pianto?». «No». «Bravo. Non serve a niente». Che felicità, ritrovare Aki Kaurismaki e il suo Miracolo a Le Havre nel cassetto degli oggetti smarriti. A giustificare tale gioia basterebbe questo scambio fra Marcel, ex scrittore in (vana) caccia di gloria, ora felicemente squattrinato lustrascarpe di Le Havre e Idrissa, giovane ragazzino africano, immigrato irregolare, che seduto sul molo guarda verso il mare. Idrissa però non guarda verso il mare ma oltre di esso; ci sono destini costretti a farlo di mestiere. «Siamo a Londra?» domanda all’uomo la prima volta che i due s’incontrano. Il ragazzo è in acqua, in fuga dal container sul quale è arrivato in Francia illegalmente. Ma lui deve andare a Londra, dall’altra parte dell’acqua. Sua madre è lì che sta. Qua sta il nocciolo del film di questa puntata dell’ufficio oggetti smarriti ma qua, a nostro avviso, sta anche uno dei punti focali dell’intera opera del regista finlandese. Nei film di Kaurismaki infatti i disperati sono costretti a sperare in altri disperati, più o meno come loro. Il fatto è che funziona. Quello è il vero miracolo. Stavolta la vicenda si svolge in un quartiere popolare della città portuale di Le Havre, dove vive Marcel Marx (André Wilms), un ex scrittore scalcinato di Parigi. Dopo anni trascorsi a inseguire il sogno di diventare scrittore affermato, Marcel ha scelto di mollare Parigi e trasferirsi in questa cittadina di fianco all’acqua. Fa il lustrascarpe, lavoro modesto ma prezioso per le persone. Non è una resa la sua ma semplicemente quello che il suo mestiere dice: lustra le scarpe. «Siamo colleghi» dice in perfetta buonafede a un negoziante di scarpe che lo caccia dalla sua zona. Marcel vive in una piccola casa con la moglie Arletty (Kati Outinen) e la cagnetta Laïka. Il suo nuovo “business” non ha del tutto ingranato ma Marcel gode dell’aiuto di alcuni negozianti del quartiere, che ricambiano la sua gentilezza e disponibilità. Questa è un’altra costante nell’opera di Kaurismaki. Ne L’uomo senza passato, un altro film del regista finlandese, un uomo senza più niente (memoria inclusa) si ritrova a vivere in un container vuoto a fianco del porto. Un giorno, fuori dal suo container, una specie di elettricista armeggia con alcuni cavi e collega la nuova “casa” dell’uomo alla rete elettrica. «Come posso sdebitarmi?» domanda l’uomo al misterioso elettricista/benefattore. «Se mi trovi riverso a terra, rivoltami a faccia in su» è la risposta. O qualcosa del genere. Nel mondo di Kaurismaki la salvezza degli esseri umani non è merce da banco e quasi tutto si paga in gentilezza. Se trovi qualcuno a pancia in giù devi rivoltarlo. Per alcuni sono sogni, altri li chiamano miracoli; quando i due fenomeni coincidono la felicità è dietro l’angolo. Ma torniamo alla trama del nostro film, come dicevamo in Miracolo a Le Havre il lustrascarpe Marcel s’imbatte in Idrissa, un ragazzino del Gabon entrato illegalmente in Francia in un container. Gli offre riparo a casa sua e lo aiuta a nascondersi dalla polizia che lo vorrebbe espellere. Mentre l’ispettore Monet (Jean-Pierre Darroussin) cerca il fuggitivo, la coppia si affeziona al giovane e si prende cura di lui, supportata dagli amici del quartiere. Ma all’improvviso Arletty viene ricoverata in ospedale, dove le dicono che è affetta da una malattia incurabile. Rimasto solo, Marcel scopre che Idrissa ha bisogno di arrivare a Londra per unirsi con sua madre. Allora l’intero quartiere si stringe attorno a Marcel per aiutarlo a raccogliere il denaro necessario a pagare il viaggio illegale di Idrissa verso la libertà. Senza svelarvi la fine e togliervi il gusto della riscoperta di questo oggetto smarrito, ci preme però ricordare alcune cose. Diremmo tre. La prima è che se questo è un film sull’accoglienza il bello è che non ce ne accorgiamo. Nel senso che tanto Idrissa e il suo viaggio vengono supportati dalla comunità della periferia, quanto questa stessa comunità sa supportare e “accogliere” se stessa ogni giorno, dando vita a quella rete di affetto e supporto reciproco che rende l’idea stessa di accoglienza felicemente superata. Nessuno accoglie nessun altro, siamo già tutti qua sulla Terra, l’accoglienza in Kaurismaki non è il frutto di un ragionamento bensì dell’istinto di salvare chi abbiamo davanti. Che arrivi dal mare o dall’isolato di fianco al nostro poco importa. La seconda è che questo concetto di accoglienza come istinto, in Kaurismaki, è chiarissimo a chi non ha quasi niente. Non sono le “possibilità” a renderci umani ma il solo fatto di esser vivi. L’ultima faccenda che Miracolo a le Havre sembra ribadire con una certa urgenza è che i miracoli, semplicemente, capitano.

di Cristiano Governa