«Adesso che sei qui» di Maria Pia Veladiano

Con il cappotto
in pieno agosto

 Con il cappotto   QUO-089
20 aprile 2021

Nella produzione letteraria di Maria Pia Veladiano è centrale il tema della fragilità, dell'esclusione, delle vite scartate, affrontato con nitore, empatia, senza rimozioni del dolore ma con ricerca di apprendimento e risposta.

In Adesso che sei qui edito da Guanda (Parma, 2021, pagine 272, euro 18), la fragilità incontra la vecchiaia e la malattia. Voce narrante e punto di vista della storia è Andreina ed è lei che ci porta fin dalla prima pagina al cuore della vicenda. Siamo in un paese del Trentino e qualcuno l’ha chiamata perché sua zia, l’amatissima zia Camilla, va a passeggio con cappotto, cappello, sciarpa e guanti in un’infuocata giornata di agosto.

Sapremo, poco dopo, che la zia ormai ha il guardaroba «tutto dentro, tutto arrotolato, appallottolato, addirittura annodato» nell’armadio: ha messo il cappotto perché non ha trovato altro. «Lo chiamano esordio, come l’esordio di un cantante o di una scrittrice, come se ci fosse un futuro luminoso che attende. (...) L’esordio è quando la malattia si manifesta al mondo. È quando il mondo la vede. Si rassegna a vederla dopo averle negato in corsa l’esistenza».

Con una narrazione partecipata, intensa, fuori dall’intento pedagogico, Veladiano intercetta nella sua urgenza e brutalità il dramma, tutt’altro che individuale, dell’insorgere di una malattia terribile, l’Alzheimer, «un tradimento della vita amica». Emergono in corrispondenza alla durezza del tema, riflessioni profonde sulla possibilità, difficoltà, sul coraggio di percorrere strade nuove, sul dare un senso anche a questo aspetto non marginale della vita.

Andreina, terzogenita di una sorella a lungo incompresa nel suo disagio, è stata allevata con immenso, ricambiato amore dalla zia Camilla, donna solida, di casa, dell’orto, dei fiori, presenti anche nelle stoffe dei vestiti e delle tovaglie. Camilla è sempre vissuta in campagna, col marito, lo zio Guidangelo, uomo mite e di pace, come il nome, connubio dei due prescelti dai genitori. La malattia si manifesta come un fulmine a ciel sereno, fa paura e subito tutti i familiari, in assenza di Andreina, si attivano – si «deve far qualcosa per zia Camilla» – la decisione è scontata e unanime, la zia dovrà essere allontanata, una scelta a loro avviso severa, ma necessaria avvalorata da una profusione di esempi di «famiglie sfasciate per aver voluto fare scelte umanamente impossibili» e inoltre ci sono posti «per questi poveri malati» davvero splendidi. Lo zio Alfonso, prete, l’unico in famiglia che ha studiato e che abita a Roma, si fa carico di cercarne uno adeguato.

Tutti d’accordo e pare, quasi, che la complessità di rapporti familiari poco felici, antiche ferite, date o ricevute, rancori mai sopiti, trovi nello scarto del più fragile, un distorto temporaneo sollievo. «A nessuno venne di dire che forse c’era una vita possibile fra noi per zia Camilla. Un modo diverso di esserci, non solo un modo di sparire», ognuno sembra ignorare che Andreina e la zia si vogliono un bene profondo, riparatore e solare, è la zia, da sempre, l’affetto più fondativo nella sua vita, la loro è una relazione familiare forte, è dalla zia «che applicava a suo modo il Vangelo» che la nipote ha imparato a non avere paura di accogliere.

Andreina ha un punto fermo, irremovibile, la zia rimarrà a casa con la sua nuova modalità di vita e sarà attorno a questa accoglienza della fragilità, all’assunzione di una responsabilità consapevole, rivolta ben oltre il desiderio di restituire l’amore ricevuto nell’infanzia, che avviene un rovesciamento nella visione dei fatti, nel modo di intenderli e di profondere i propri vissuti. «“Tempesta” dice zia Camilla guardando dalla finestra i tralicci delle viti tormentati dalla grandine. “Un temporale estivo, zia” le rispondo. “Tempesta come nella mia testa” dice. “Finisce presto, zia” la rassicuro. “Sì, ma dopo restano tutti i buchi” risponde».

È da quei buchi, dallo smarrimento del non riconoscersi nel perché qui e ora, che Andreina vuole proteggere la zia e, attinge, lei, donna di scuola, da quello che ha insegnato e imparato a sua volta a fare: prevenire quel momento, prevenire «il baratro della consegna del foglio bianco».

Sa che non può farcela da sola, viene meno l’idea di autosufficienza, si apre all’aiuto, c’è bisogno di fidarsi e affidarsi e Andreina lo fa nell’ordine orizzontale, femminile, della rete. A casa della zia verranno le ragazze del progetto Alzheimer, vi abiteranno donne che hanno viaggiato da tanto lontano, prima Merhawit, poi Naima, torneranno le sorelle, in un girotondo non sempre facile, ma dove la cura dell’altro, come sempre, è riparatrice per tutti.

«“Callendula”. “No, no, calendula, una elle. È per la pelle, se ti scotti”. “Una elle per la pelle!” ripeteva Merhawit e rideva, rideva “Io però non mi scotto perché sono nera!”. “Per la pelle scottata o tagliata per il freddo”. “Tagliata?”. “Screpolata”, la zia era contenta se le veniva la parola giusta. E la ripeteva non si sa se per Merhawit o per se stessa - “Scre-po-la-ta!”».

di Nicla Bettazzi