Intitolato a don Resmini, cappellano morto di covid, il carcere di Bergamo

Un amico, un padre
spirituale un esempio
di umanità evangelica

Don Fausto Resmini
17 aprile 2021

«C’è molta trepidazione, ansia, ma anche tanta gioia. Don Fausto era una persona eccezionale. Nella notte tra il 22 e il 23 marzo 2020 è venuto a mancare non solo un uomo, un religioso, limpido esempio di umanità evangelica, ma una risorsa per l’intera istituzione penitenziaria, per l’amministrazione, un punto di riferimento per tutti i soggetti che a vario titolo interagiscono con la nostra comunità». La voce della direttrice della Casa circondariale di Bergamo, Teresa Mazzotta, è rotta dalla commozione nel ricordare la figura di don Fausto Resmini, cappellano per oltre trent’anni dell’istituto lombardo, scomparso poco più di un anno fa per le complicanze causate dal covid-19, all’età di 67 anni. Al sacerdote, lunedì prossimo, verrà intitolato il carcere alla presenza del ministro della Giustizia, Marta Cartabia, e del capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Bernardo Petralia.

«La sua capacità di entrare in empatia con i detenuti non aveva eguali» racconta la direttrice, sottolineando che don Fausto: «Era il padre spirituale con cui rivedere in senso critico una condotta censurabile o consolidare la fede in un momento di difficoltà. L’amico a cui confessare ansie e timori o su cui contare per far fronte a situazioni di indigenza. Diventava supporto anche per le famiglie delle persone private della libertà personale».

Nato a Lurano, un piccolo centro in provincia di Bergamo il 7 aprile del 1952, frequenta il patronato di San Paolo d’Argon fin da piccolo e qui comincia il suo percorso formativo, proseguito poi presso il Centro di Sorisole. Poi la scelta della Cattolica di Milano, frequentando la facoltà di giurisprudenza e dopo circa un anno i corsi di Teologia nel seminario di Bergamo. Ordinato sacerdote nel 1978, fonda la comunità Don Lorenzo Milani grazie all’aiuto di alcuni ragazzi che aveva seguito come assistente educatore e che lo affiancheranno per tutti gli anni successivi.

Nel 1987, la prima volta come volontario nel carcere di Bergamo. Entra così in contatto con il mondo penitenziario degli adulti, incontrando persone che avevano sbagliato ma che, al tempo stesso, mostravano fragilità ed erano bisognose di conforto. «Quei poveri di spirito protagonisti del Discorso della montagna ai quali avrebbe dedicato tutta la sua vita» riprende la direttrice.

Don Resmini è stato ricordato anche dal presidente del Consiglio dei ministri Mario Draghi, il 18 marzo scorso, in occasione della cerimonia in ricordo delle vittime del covid tenutasi proprio a Bergamo. Il presidente del Consiglio lo inserì a pieno titolo nelle figure “simbolo di resistenza civile”, definendolo “prete degli ultimi”. «Con lui rendiamo omaggio ai sacerdoti della diocesi bergamasca deceduti per il virus» ha detto Draghi nell’occasione.

Cappellano a Bergamo dal 1992, il sacerdote si è molto adoperato nell’accompagnamento dei detenuti, durante la fruizione dei permessi premio con un lavoro, di raccordo con la magistratura di sorveglianza «esplicitando chiaramente gli obiettivi del suo operato, cioè favorire le relazioni tra genitori e figli minori». In questo, continua Mazzotta «ha lavorato per sostenere i momenti di aggregazione familiare anche all’interno del carcere». Quanto al rapporto con i ristretti, don Fausto credeva nel recupero individuale e sociale delle persone private della libertà personale. «Attraverso un dialogo costante e prendendo le mosse dal trauma conseguente all’ingresso in istituto, senza voler influire sulla libera scelta dell’individuo, interagiva con lui alla stregua della maieutica socratica, ne sollecitava un’autonoma presa di coscienza di eventuali errori e delle conseguenze pregiudizievoli che ne erano derivate in un’ottica di liberazione dal peso della sofferenza. Trasmetteva valori che partivano dal rispetto verso sé stessi e verso gli altri, alleviando così la sofferenza nella prospettiva del futuro reinserimento sociale».

La sua missione guardava con attenzione anche a chi lavorava in carcere (agenti di Polizia penitenziaria e personale amministrativo): «Costruiva un secondo rapporto di collaborazione fondato sulla fiducia, sul rispetto, sulla stima» rivela Mazzotta. «Era un punto di riferimento anche per progettualità specifiche sul benessere del personale stesso. Una presenza costante in manifestazioni ufficiali. Ricordo, ad esempio le feste della Polizia penitenziaria officiate all’esterno della struttura dove pronunciava sempre parole che davano lustro e prestigio al corpo. Costruiva rapporti con i singoli, oltre che con le loro famiglie. Aveva sempre per tutti parole di conforto ed incoraggiamento».

La direttrice, infine, ricorda il suo rapporto di stretta collaborazione con don Resmini: «All’ingresso in istituto era solito passare sempre dal mio ufficio e oggi ho la sua foto che mi sorride e avverto il suo sostegno e il suo conforto, anche se confesso che mi mancano veramente i suoi saggi consigli. Mi manca l’impossibilità di condividere con lui un’idea, un progetto. Tutti noi oggi condividiamo il ricordo di un grande uomo, di un grande sacerdote. Egli ha voluto massimamente tra queste mura mettere a profitto il suo impegno a favore del prossimo. La prospettiva della realizzazione della dignità della persona è stata la finalità che ha contrassegnato la vita e la sua opera».

di Davide Dionisi