Storie di misericordia

Misericordioso
perché misericordiato

Rembrandt «Ritorno  del figliol prodigo» (particolare)
17 aprile 2021

La lotta armata, il carcere e poi... l’incontro con un prete


«Quando domenica ho sentito in tv Papa Francesco usare questo inusuale termine “misericordiato”, in pochi secondi tutta la mia vita come un film mi è passata davanti gli occhi. Perché io sono un misericordiato. Sono anche un misericordioso. Ma quest’ultimo non è merito mio. Perché quando sei misericordiato, e ne hai coscienza, non puoi non essere anche misericordioso.

«Sono misericordiato perché sono vivo, mentre alcuni tra i miei amici e compagni sono morti. Morti ammazzati davanti a me. Sono un misericordiato perché non debbo anche rimproverarmi di avere ammazzato qualcuno, né di aver collaborato ad uccidere alcuno di quelli che nella mia follia chiamavo nemici. Sono un misericordiato perché ad un certo punto le squame dagli occhi sono cadute ed ho ricominciato a vedere la realtà, ho ricominciato a vivere. Sono un misericordiato perché il Signore ha messo sulla mia strada una delle sue creature più belle: don Luigi Di Liegro».

Mario Guerra, 65 anni, ex brigatista oggi operatore della Caritas, il misericordiato, non parla ma erutta parole come lava, con una foga, che forse è l’unico tratto che unisce la sua vita attuale con quella passata, entrambe segnate dalla passione. «Mio padre era comunista e mia madre cattolica praticante: un cocktail esplosivo, in casa si parlava sempre di giustizia sociale. Così fu giocoforza che ancora giovane sentendo il peso delle ingiustizie intorno a me, finissi arruolato nelle frange più estreme della sinistra, in quella che si chiamava Autonomia operaia. Poi incontrai nel 1976 Valerio Morucci e feci il salto verso la lotta armata. Ero in forza alla “logistica”, mi occupavo cioè dell’organizzazione dei covi e dell’auto finanziamento, cioè le rapine. Mi trovai così in un mondo scisso dalla realtà, in cui la passione aveva soverchiato la ragione. Nel 1979 venni arrestato per tre mesi con l’accusa di favoreggiamento. Poi nel novembre 1980 partecipai ad una rapina in Abruzzo. Sulla via della fuga incrociammo un posto di blocco dei carabinieri. Uno dei nostri aprì il fuoco. Due miei compagni vennero uccisi, io ferito e arrestato. Venni portato all’ospedale di Cassino, dove il caso (il caso?) volle che il medico che mi soccorse fosse mio fratello, che operava lì. Venni poi trasferito a Poggioreale, dove di nuovo sfiorai la morte. La notte del terremoto del 1980 fui involontario testimone di un regolamento di conti in cui venne ucciso un capocamorrista. Provarono ad uccidere anche me, ma il caso volle che una guardia, per impedire una fuga di massa dopo le scosse, tirasse una sventagliata di mitra in aria che allontanò da me i killer. Ero salvo per la seconda volta. Ma la salvezza vera, quella dell’anima doveva ancora venire. Mi raggiunse più tardi in carcere quando incontrai il mio angelo custode: don Luigi Di Liegro. Avevamo deciso di dissociarci dalla lotta armata ormai sconfitta, e lui venne ad incontrarci in prigione. Fui immediatamente attratto dal suo sguardo, i suoi occhi sempre un po’ lucidi. Don Luigi era un mix incredibile che non ho mai incontrato in altri: amorevole ma deciso, profetico ma pragmatico, spirituale e sociale. Sapeva vedere e ascoltare la fragilità e il disagio ovunque apparissero. Anzi, spesso sapeva anticiparli. Ci metteva davanti ai nostri errori, ma non ci sentivamo giudicati. C’era un tocco sempre leggero nelle sue parole, anche le più dire. “Vi bruciava dentro una passione ma avete peccato di presunzione — ci diceva — la presunzione di cambiare il mondo senza cambiare voi stessi”. Era il tocco del perdono, della Misericordia. Il tempo in galera divenne così, per paradossale che possa sembrare, un tempo di grazia. Mi laureai in legge e in scienze della formazione. Uscito in libertà dopo sei anni di prigione, entrai, per la prima volta dopo anni, in una chiesa. Mi trovai quasi inconsapevolmente a pregare. E avvertii di nuovo quello stesso tocco. Come di un padre che ti riaccoglie senza sconti. Ricordo che avvertii un senso come di ebbrezza, dato dai polmoni ripieni di aria fresca, nuova. Andai a trovare don Luigi in Vicariato e lui mi dette la possibilità di diventare da “misericordiato” a “misericordioso”. Mi affidò ad un formidabile prete di strada, padre Angelo Vitali, con il quale andai a lavorare nella casa famiglia per malati di Aids che don Luigi aveva aperto a Roma, a villa Glori. Un’esperienza che ci vorrebbe un libro per raccontarla. Ancora oggi lavoro alla Caritas, mi occupo di assistenza domiciliare, di quello che chiamano “barbonismo domestico”, entro nelle case degli “scartati” per portare aiuti ma anche a dare una parola di speranza: e cioè che, come è avvenuto con me, nella vita si può sempre risorgere. Ancora oggi lotto contro i fantasmi dei miei errori passati, e il prendermi cura degli ultimi è la giusta terapia. Perché vedendo e condividendo le loro pene spengo quell’ansia di protagonismo che ha segnato la mia vita e arrecato tanto male. Non è volontà di espiazione ma ricercare un senso alla propria vita, l’unico possibile: vivere per gli altri e non per se stessi . Mi guardo indietro e mi guardo oggi e una sola cosa capisco: essere misericordiato e misericordioso è solo Grazia. E a me è toccata».

di Roberto Cetera