Leggendo Dante a Newgrange

La luce del Paradiso

Uno dei “segnavia” del museo letterario dedicato a Seamus Heaney a Bellaghy, in Irlanda
17 aprile 2021

Sweeney e il «ghibellin fuggiasco», due storie gemelle


All’inizio degli anni Settanta Seamus Heaney (1939-2013), il grande poeta irlandese premio Nobel per la Letteratura nel 1995, decide di sottrarsi alle bolge infernali dei Troubles. Si trasferisce dal Nord al Sud dell’Irlanda, duramente criticato da una parte e dall’altra del confine, obbedendo a un movente puramente letterario: la cura a tempo pieno della sua scrittura, senza pressioni d’impiego lavorativo e d’impegno politico. Lo sradicamento, il passaggio dalla città di Belfast alla campagna di Dublino, evoca a Heaney, più o meno casualmente, due figure d’esule che accompagnano la vita nuova del poeta: Sweeney e Dante. La fascinazione verso l’assurdo (e lucidissimo) impazzimento del re medioevale, che una maledizione induce a girare l’Irlanda credendosi un uccello, germina nella traduzione completa della leggenda di Buile Suibhne; e d’altra parte richiami alla struttura e alle storie della Commedia appaiono sempre più di frequente nella poesia di Heaney, a partire dal quinto libro, Field Work (1979), fino al dodicesimo e ultimo, Human Chain (2010). Nell’immaginario del poeta l’anima pagana di Sweeney e quella cristiana di Dante coabitano, rovesciando l’espressione latina, in un preciso locus geni. Si tratta di Newgrange, primo sito preistorico irlandese di cui è stato riconosciuto l’allineamento astronomico. Scoperto nel 1967 e situato nella valle del fiume Boyne, nella Contea di Meath, resta ancora oggi il più celebre monumento archeologico del Paese. Abitato e coltivato da cinque millenni, questo luogo divenne nel tempo sede di tombe megalitiche che, inizialmente di dimensioni contenute, per ragioni misteriose si fecero man mano enormi. L’ispirazione di Heaney sovrappone la luce divina del Paradiso di Dante a quella solare della tomba di Newgrange. Ogni anno, nel giorno del solstizio d’inverno (21 dicembre), un gruppo ristretto di persone scelte per sorteggio ha il privilegio di entrare nella tomba alle 8.58 del mattino, quando i raggi del sole nascente entrano da un pertugio del soffitto nella camera tombale e la inondano di luce per 17 minuti: nel giorno più corto dell’anno il sole riprende la sua marcia verso nord. Nel 1999 Heaney assistè all’ultimo solstizio del millennio e ne affidò il ricordo — gli istanti sospesi nell'atavica attesa di un nuovo inizio — ai versi di A Dream of Solstice: «Wwaiting for seedling light ... to start the work /  of the world again» (“in attesa di luce seminale ... per dare nuovo inizio/ all’opera del mondo”). Quella poesia si apriva (e si chiudeva, in una prima redazione) con alcune terzine tratte dall’ultimo canto della Commedia di Dante: per Heaney funzionò da trampolino di lancio verso una traduzione, che è piuttosto un rifacimento, del canto dantesco nella parte che descrive il prodigio della luce divina (con la voluta eccezione delle prime 16 terzine). La riproduciamo qui grazie alla generosità della famiglia Heaney, seguendo la versione a stampa licenziata dal poeta nel 2004 (cfr. Between Poetry and Poltics. Essays in Honour of Enda McDonagh, a cura di Linda Hogan e Barbara Fitzgerald, Dublin, Columba Press). La scelta di proporre una nostra traduzione della versione inglese “contemporanea” vuole sottolineare l’originalità e l’efficacia del testo di Heaney e al tempo stesso dimostrare che Dante è vivo: che vive nella nostra lingua e nel nostro immaginario come in quello di Heaney, e circola nel sangue della letteratura di tutto il mondo. (leonardo guzzo e marco sonzogni)


La luce del Paradiso


San Bernardo, sorridendo beato,
mi indicò di alzare gli occhi; ma già
di mio impulso ne avevo anticipato

l’invito: saldo il mio sguardo rimaneva
e si faceva puro volgendo a quel raggio
dell’alta Luce che sui generis è vera.

Da allora i miei occhi nuotarono
tra visioni indicibili, che difetto a spiegare
come difetta la memoria se i ricordi esorbitano.

Come uno che vede cose in sogno
e poi da sveglio nulla sa riportare
fuorché un’eco lieve di quel regno,

così vivo adesso: le cose che ho visto sono fole,
quasi svaniscono, ma stille di dolcezza
ancora gocciano da quelle nel mio cuore.

È come la neve che al sole si discioglie,
come l’oracolo della Sibilla che rotea
al vento e si sperde in vortici di foglie.

O Lume Supremo, tanto più in alto levato
di quanto menti mortali osino spingersi, riporta
alla mia qualcosa di Te quando ti sei svelato,

rinsalda la mia lingua, che io possa illuminare le generazioni, tutte quelle a venire,
con uno sprazzo almeno del Tuo terso bagliore,
che un’orma di Te, se al mio ricordo resta, cantata al mondo in queste terzine,
la Tua pienezza renda più manifesta.

Mi sarei perso — come un dardo
di luce mi colpiva il raggio vivo —
se avessi distolto lo sguardo

e fu per questo che restai
a fissarlo dritto, finché
la vista all’Infinito Valore mischiai!

O traboccante grazia, per cui potevo ardire
ancora di guardare nella Tua luce eterna
così intensamente assorto da svanire!

In fondo ad essa io vidi cucite,
riunite dall’amore in un sol libro,
le pagine ovunque nel cosmo smarrite:

sostanze, accidenti e ciò che li connette,
fusi in meraviglia adamantina;
fioca luce il mio verso ne riflette.

Eternità di forma, credo, è ciò che vidi —
le trame, i grovigli — perché rammentando
mi avvolgono più e più gioiosi brividi.

Pure, assenza mi ispira lo stesso pensiero, oblio più grande più di quello posato dai millenni
su Argo e gli Argonauti e le ombre loro

che sorpresero Nettuno. La mia mente, in estasi,
restò quindi immobile, rapita e sopraffatta, più amorosi quanto più assorti i sensi.
In quella luce un uomo si abbandona
al punto di non concepire
che possa distrarlo un'altra scena —

perché il bene, che la volontà persegue,
è in essa tutto racchiuso e la perfezione
di ciò che sta dentro fuori si estingue.

Ma alle vette del ricordo non arriva
la mia lingua. Fosse quella
di un bimbo,
schiumosa di latte materno, sarebbe più viva.

Non perché l’unico viso presente nella luce che fissavo — semplice sempre e uguale a com’era ogni istante —

ma perché in me la vista flebile
si rafforzava guardando, quella stessa
sembianza pareva di suo mutevole.
Dentro la persistenza — profonda, incandescente —
della Luce in alto, mi apparvero tre cerchi
di uguale grandezza ma colore differente

e uno da un altro come un’iride da un’iride
sembrava riflesso, e il terzo era fuoco
del pari appiccato dai primi due.

Quanto è inadatta la mia lingua, quanto
dista dall’idea che ho in mente. Di fronte alla realtà
trema il mio verso, la parola rende a stento.

O Luce Eterna che alberghi nella Tua unicità,
che sai solo Te Stessa, e saputa da Te, tutto sapendo,
ami e arridi alla tua radiosità.

Quel moto di cerchi — gli anelli nati dal fulgore,
che in Te si mostrano come luce riflessa —
guardato che l’ebbi per un po’, giunse a svelare

dall’interno, dove splendeva tinta
del proprio colore, l’Immagine di noi; perciò la mia vista ne fu avvinta.

Come un geometra insiste e mai si stanca, cerca la quadra al cerchio in fervida contemplazione
se anche stenta e la formula gli manca,

così ero immerso a studiare quell’apparizione:
smaniavo di sapere come fosse l’Immagine
distinta entro il cerchio eppure con esso in comunione.

Ma le mie ali arrese erano scarse al volo
se non che la mente mi scosse un fulmine chiaro:
m’illuminò la meta un lampo solo.

Qui la forza mancò che l’alta fantasia reggeva, ma come una ruota centrata che fischiando frulla
volontà e desiderio già mi volgeva

l’amor che smuove il sole ed ogni stella.

                                                                    Paradiso xxxiii 49-145

di Seamus Heaney