«Lettere e biglietti» di Goliarda Sapienza

Guardarsi dentro
con inclemenza

 Guardarsi dentro con inclemenza  QUO-086
16 aprile 2021

«Non ho la misura adatta per entrare in questo cappotto di vita, o mi stringe alle spalle o è troppo corto. Colpa della mia taglia». Già da queste parole indirizzate alla scrittrice Fleur Jaeggy si intuisce la straordinaria capacità di Goliarda Sapienza di guardarsi dentro con inclemenza, senza per questo cessare di narrare poeticamente anche ciò che potrebbe sembrare estraneo alle possibilità della poesia. Ma poesia — e Sapienza ne era dolente e assieme gioiosa testimone — non è abbellimento, tutt’altro.

È vita, corpo e anima, non esprime un di più, semmai un inabissamento nelle latebre più indicibili della psiche. O dello spirito, a seconda non solo e non tanto delle convinzioni di massa, ma soprattutto delle oscillazioni di quelle convinzioni — e domande — in ognuno. Per questo leggere le sue Lettere e biglietti, a cura di Angelo Pellegrino (Milano, La nave di Teseo, 2021, pagine 432, euro 18), che nel 1979 aveva sposato la scrittrice siciliana (era nata a Catania nel 1924, si spense a Gaeta nel 1996) significa entrare in una dimensione in cui la scrittura è legame con la vita in quanto espressione del senso dell’esistenza. Se a forma si restituisce però il senso, crociano ma non solo, di identità con il pensiero, alla base stessa dell’opera d’arte.

Sapienza era stata, da sempre, affascinata dall’arte dell’espressione: dapprima con la frequenza dell’Accademia nazionale d’arte drammatica a Roma, poi con il teatro e il cinema, fino ad arrivare alla scrittura e all’epica contemporanea di quella Arte della gioia che non fece in tempo a vedere edita integralmente: Stampa Alternativa riuscì a pubblicare la prima parte del romanzo nel 1994, che poi lo stesso editore fece uscire nella stesura definitiva due anni dopo la morte della scrittrice, prima dell’edizione Einaudi del 2008.

Le lettere, ma anche i bigliettini, di Sapienza sono la testimonianza di questa unità arte-vita che non ha nulla delle scenografie dannunziane o dell’estetismo wildiano: semmai, al contrario, narra il cammino verso l’autenticità senza compromessi, fino alla “scelta” del carcere nel 1980.

Molto è stato scritto sull’episodio del furto di gioielli in casa di un’amica e dei mesi di detenzione a Rebibbia, di cui poi la scrittrice parlò in L’università di Rebibbia (Rizzoli, 1983): Sapienza ne ha dato diverse — che non significa contraddittorie — motivazioni nel corso degli anni. Da queste lettere però emerge una scelta maturata alla penombra dei salotti della borghesia intellettuale degli anni Sessanta-Settanta: quella di uscirne fuori. Quell’atto non era solo la rivelazione, soprattutto a sé, di una situazione di indigenza — la povertà si rivela attraverso gli sguardi degli amici, dalle allusioni più o meno esplicite, alcune assenze — ma anche di un salto oltre.

Sì, certo, avranno influito la sua particolare visione dei clerici vaganti, che lei stessa cita in alcune lettere, dell’addio al sazio occidente di Rimbaud, dell’altro di Lautréamont, dei “trasgressori” che nella nostra quotidianità rischiano la galera per fame, ma questa sua descensio ad inferos, al di là delle accuse di neo-estetismo che le sono state rivolte, le ha offerto il bagno purificatore di cui scrive a Citto Maselli, suo compagno per molti anni, in una «rivolta a tutto il mio modo di vivere».

Perché lì nel limbo del carcere è finalmente apparsa la luce della vera condivisione, del poco per sopravvivere, ma soprattutto della comprensione e dell’amicizia vera con gli altri “caduti” per scelta o necessità. E, sembra una sciocchezza, ma non lo è, come afferma lei stessa, «uscita dalla prigione non devo più vestirmi bene per andare a una cena», perché, lo si scopre attraverso alcuni passaggi “iniziatici”, anche attraverso i piccoli momenti del giorno emerge «il germe della vita senza sole, il thanatos che sempre nelle suture del nostro corpo e della nostra psiche si annida come un verme notturno sempre pronto a svegliarci e a distruggerci» come scrive nella lettera a Piera Degli Esposti.

Ed è con la consapevolezza di questa alterità, che qualche anno fa sarebbe stata chiamata anti-borghese, che ammiriamo citazioni mai scontate, come quelle di un Eliot non prigioniero della sua Terra desolata, ma nel nucleo fondante del precedente Prufrock, dove ciò che chiamiamo tempo è scandito dai cucchiaini di caffè e dalle cerimonie delle «tazze, la marmellata e il tè», qui più volte citate, e dalla tentazione purificatrice del rifiuto stesso della scrittura, con il sacrificio della propria vocazione “borghese” a contatto con l’elementarietà della semplice esistenza: il che richiama un po’ il rifiuto del ruolo di intellettuale da parte di Tolstoj in fuga dal peccato delle origini nobiliari, ma che ha anche la dimensione del viaggio quasi iniziatico, che emerge in alcune lettere.

L’amore è di conseguenza visto non come una salvezza dalla noia di esistere o come speranza di realizzazione dei desideri, ma come condivisione anche fraterna, e non è un caso che molti degli interlocutori e interlocutrici di questo epistolario siano gratificati di vere e proprie dichiarazioni d’amore, più prossime però alla concezione di agape che a quella di eros, in quella percezione positiva di una “solitudine a due” contro la mercificazione che Sapienza già individuava nelle lettere dei primi anni Sessanta.

Se si volesse tentare una strada nuova, né legata al dottrinarismo marxista, né all’iper-liberismo, al di là delle parole d’ordine dei salotti-avanguardie, forse la si potrebbe intravedere in queste spietate e insieme gioiose lettere. Solo a patto di credere che le nuove visioni del mondo possano nascere non dalla politica, ma anche dalla ricerca dell’arte della vera, autentica gioia.

di Marco Testi