«Patris corde»

Giuseppe è ognuno di noi

Murillo, «Fuga in Egitto»
15 aprile 2021

A colloquio con il pedagogista Johnny Dotti


San Giuseppe “padre amato”, non immaginavano, Johnny Dotti e don Mario Aldegani, fino a che punto arrivasse questo amore del popolo dei fedeli nei confronti del santo, ma lo hanno scoperto in occasione della scrittura del loro saggio Giuseppe siamo noi (ed. SanPaolo): «Quando io e don Mario siamo andati in giro per tutte le regioni d’Italia promuovendo la prima edizione del nostro libro, abbiamo fatto questa esperienza, netta, di san Giuseppe “padre amato” come scrive il Papa nella Patris corde». Dotti deve ammettere che proprio non se l’aspettava, anche perché, «prima di questa esperienza, anch’io non avevo un gran rapporto con san Giuseppe, lo ritenevo una figura sbiadita, forse a causa dell’iconografia sul santo che c’è in giro dalle mie parti in Lombardia, di una tristezza totale, soprattutto se paragonata a quella di Maria. E invece oggi per me è una compagnia molto importante, che a me aiuta, molto, ogni giorno, a fare il padre. Io di fatto lo prego ogni mattina, quando prego i miei genitori che oggi non ci sono più, prego anche lui, e lui mi aiuta».

Non si tratta solo di una sensazione epidermica ma di un’ipotesi riscontrata, sperimentata e testata sul campo: «Abbiamo fatto più di 150 incontri tra il 2017 e il 2018 nei posti più disparati, dagli operai di Taranto ai carcerati di Brescia, in parrocchie, librerie, oratori, scuole con gli artigiani di Vicenza e Cremona, con sindacalisti e cooperative, ma soprattutto tra i giovani e anche lì ho riscontrato un interesse molto forte». Un’evidenza che il pedagogista cerca di spiegarsi: «Penso la ragione sia da andare a cercare nel fatto che oggi c’è una tremenda difficoltà di trovare un’identificazione dal punto di vista dei padri che oggi sono un po’ personaggi in cerca d’autore. Forse proprio per questo le persone lo sentono vicino alla loro esperienza. Tutte queste persone che ci venivano ad ascoltare, e intervenivano raccontandosi, avevano già fatto la stessa esperienza che poi ho fatto io grazie anche all’incontro con loro, si sono cioè sentiti aiutati dalla figura di san Giuseppe. È chiaro che c’è anche la dimensione devozionale che non voglio sottovalutare perché è importante, ma c’è anche altro».

Dotti si dilunga sul profilo che emerge di questa figura a un tempo misteriosa e luminosa: «Innanzitutto Giuseppe non parla. E questo, può sembrare strano, ma avvicina non allontana. Perché a uno così tu ci puoi parlare, sai che lui ti ascolta. Il che oggi è qualcosa di enormemente prezioso. Non parla Giuseppe, non pontifica ma ti ascolta, ti accoglie. Giuseppe tace perché ascolta la Parola incarnata in un fragile bambino e così avviene che egli viene introdotto al mistero della Vita e quindi a sua volta ti introduce con umana tenerezza al mistero che c’è nella vita di ognuno di noi. Ti dà coraggio. Inoltre lui non è il padre biologico. E questo oggi suona molto vicino a molti. Perché nelle famiglie di oggi, spesso è richiesto di essere padri di figli non propri. Ma nella vita si scopre che l’arte del padre è quella di custodire il sogno del figlio e di diventarne degno».

Silenzioso, padre non biologico, ma per Dotti il falegname di Nazareth è tutto tranne che una figura debole: «Tutt’altro, è anche un simbolo dell’autorità nel senso migliore del termine: egli decide, dirige la famiglia e il figlio, e non perché detiene le risposte ma perché è il custode della domanda».

Parliamo del suo essere falegname di Nazareth, di questa vita “ai margini”. «La sua è senza dubbio una vita nascosta; è un uomo dimesso, non è “uno famoso”, eppure viaggia, fa esperienza, un po’ come tutti noi, oggi: pensiamo ai nostri giovani, che (almeno prima della pandemia), si muovono e viaggiano così spesso. Il viaggio di Giuseppe in realtà è da Nazareth a Nazareth, egli ritornerà alla vita semplice del falegname di Nazareth dopo aver visto il pericolo in faccia e aver operato delle scelte difficili. Di fatto ha cambiato il lavoro e la residenza di continuo, è andato prima a Betlemme e poi in Egitto. Non è stato vittima della “retorica del lavoro”, è stato un uomo impegnato, occupato al lavoro, ma ancor prima pre-occupato di ciò che vale di più, nel suo caso Maria e Gesù che ha anteposto a tutto».

Giuseppe sposo fedele ma, avverte Dotti, con una drammatica particolarità (come tutte le fedeltà): «Egli è un uomo, si può dire, che è stato “tradito” da Maria. Nel senso che le cose non sono andate certamente nel modo che lui si aspettava. Diciamo pure che Giuseppe è un uomo traumatizzato, come tutti noi. Penso soprattutto ai giovani, alle loro fragilità, ma anche a noi adulti. E Giuseppe anche in questo, nel modo con cui supera i traumi, è di grande aiuto, è vicino a tutti noi. Qui egli infatti supera la “retorica del tradimento”, ci insegna, ci educa alla dura, potente, normalità del tradimento. Oggi tutti viviamo, tragicamente, la sindrome del tradimento, per cui tutto viene avvertito come tradimento e il tradimento è considerato la fine di tutto. E invece Giuseppe si muove all’interno di una continua dinamica di tradimento: è tradito da Maria, è tradito da Dio, anche qui egli deve rivedere la sua immagine di Dio perché certo non ne comprende subito e facilmente i disegni, è tradito dalla legge, dal sistema, che sembra congiurare contro il figlio, e allora egli stesso tradisce le leggi, non consegna il figlio ad Erode, al garante del sistema, ma fugge e va in terra straniera. Sono gesti per niente scontati ma audaci, rischiosi, liberi, e pagati a caro prezzo».

Torniamo alla sua vita nascosta, coincide con la vita nascosta di Gesù a Nazareth, oltre Giuseppe non sembra andare: «Esatto, così si deduce dai Vangeli, ed è un dettaglio non di poco conto. Egli vive la vita nascosta del figlio, cioè solo il periodo di Nazareth. Non conoscerà quindi la vita pubblica del figlio, non ne vedrà la fioritura. Anche questa sua libertà è di grande aiuto e insegnamento per i genitori, oggi. Perché, dobbiamo dirlo, i figli sono anche motivi di scontro duro, di pazienza, di sofferenza, per i padri. E così è anche per Giuseppe, che nell’ultimo dialogo riportato dai Vangeli con Gesù sente il figlio che gli ricorda che lui non è veramente padre, che uno solo è il padre. Perché è verissimo che spesso sono i figli a educare il padre, chi è genitore lo sa. La dimensione di padre, nel pellegrinaggio esistenziale, è una dimensione di transito che ci conduce a vivere più in profondità il nostro essere figli. Siamo tutti figli e perciò fratelli. Ogni padre sulla terra è solo l’ombra del Padre».

C’è infine un altro dettaglio di san Giuseppe che colpisce l’immaginazione di Johnny Dotti, è il fatto che «egli ha un asino (così lo riproduce spesso l’iconografia); mi sembra un dettaglio splendido. Non è proprio solo. Ha “qualcuno” a fianco. Magari ci dialogherà sfogandosi nelle sue serate e nottate insonni, che però poi portano a sonni ricchi di sogni. E sul sogno ci sarebbe molto da dire, ma fermiamoci qui per ribadire che questa figura è molto amata dal popolo, dalle persone semplici perché è una figura che tocca l’esistenza concreta, quotidiana, più di Maria così intangibile, inarrivabile. Egli è veramente ognuno di noi».

di Andrea Monda