RISUS PASCHALIS - VERSO LA PENTECOSTE CON LA GIOIA DELLA RESURREZIONE

Dio asciuga le nostre lacrime

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15 aprile 2021

Il primo sguardo di Gesù Risorto si posa sulle lacrime. Guarda con tenerezza Maria di Magdala che, all’esterno del sepolcro, piange la propria perdita. In questa scena evangelica, che meditiamo nel Tempo della Pasqua, c’è in fondo una sintesi del mistero della salvezza: Dio ha mandato Suo Figlio per raccogliere il nostro pianto, per immergersi nel dolore del mondo. Egli, come un Dio che conta una per una le nostre lacrime e le raccoglie in un otre, per mezzo di Gesù ha voluto anzitutto posare il suo sguardo sulla nostra umanità ferita, sulle nostre sconfitte, sulle nostre perdite, sulla paura e sull’angoscia che ci assalgono non tanto davanti agli enigmi della vita, quanto dinanzi all’incomprensibilità della morte. Per questo, lungo tutte le pagine dei Vangeli, vediamo che Gesù è sempre caricato del peso dell’umanità, sempre attento a ciò che passa nel cuore e nella carne di chi lo incontra, spesso mosso a compassione, visceralmente appassionato all’umanità sofferente e indignato nel profondo verso quel male che deturpa la bellezza della vita.

Che cos’è allora la Risurrezione? Cosa significa la Pasqua che celebriamo noi cristiani? È aprirsi alla gioia di sapersi accompagnati e guardati mentre piangiamo le nostre lacrime. È sapere che abbiamo un Dio che si ferma, presso i nostri sepolcri, per chiederci con tenerezza, come fece con Maria di Magdala: “Perché piangi?” È sentire che in questo chinarsi di Dio sulle mie lacrime posso sentirmi semplicemente amato, accolto e rinnovato verso una vita che ricomincia sempre e di nuovo, perché il Signore Risorto è con me. E riaccende la vita.

Nell’esame di coscienza che noi cristiani siamo chiamati a fare, forse dovremmo porre più attenzione alla dimensione della gioia. Lo stile quaresimale di cui Papa Francesco parla all’inizio di Evangelii gaudium ci caratterizza ancora troppo e il nostro cristianesimo, in molte forme, linguaggi e posture, è ancora sequestrato dalla seriosità, dalla tristezza, da una mistica del dolore per nulla evangelica. Ma al centro della fede c’è l’evento della Pasqua, che riassume e realizza la missione di Gesù: “Sono venuto perché la vostra gioia sia piena”.

Dobbiamo chiederci se, nell’esercizio della nostra fede, nella nostra pastorale e nel volto che mostriamo agli altri, questa gioia traspare. Se la nostra gioia di risorti è contagiosa oppure se, al contrario, siamo persone che restano sempre vicino al sepolcro, più pronte a piangere le proprie perdite e lamentarsi per le cose che non vanno, invece che ad aprirsi a quanto il Signore Risorto ogni giorno può realizzare nella nostra vita e nella storia.

Dio è morto ma siamo stati noi ad ucciderlo, affermava Nietzsche. Lo stesso filosofo del Novecento, non senza una cinica ironia, afferma che sarebbe disposto a imparare a credere: se solo i cristiani gli cantassero canti migliori e avessero l’aria di gente salvata! Il grande teologo Henri de Lubac si chiede: come dargli torto? Non abbiamo l’aria da gente salvata e aperta alla gioia — scrive de Lubac — e a molti di noi il cristianesimo non sembra affatto qualcosa di grande, di entusiasmante, che accresce la vita e alimenta la gioia.

La gioia pasquale è segno distintivo della nostra fede. Non è una felicità forzata, una maschera, un ottimismo ingenuo, né tantomeno assenza di problemi, di fatiche e di sofferenze. È sentirci amati dentro questo affascinante e duro viaggio della vita. È sentirci benedetti e sapere che Dio asciuga le nostre lacrime e ci rimette in viaggio sempre.

di Francesco Cosentino