Le alterazioni della percezione «regalate» dai suoni

Sentire ciò che è al di là…

Horinka_14_x.jpg
14 aprile 2021

La musica è una componente inscindibile della nostra esistenza. L’essere umano non può esistere senza musica e la musica senza l’essere umano. La musica può esistere solo nel tempo e nello spazio, ma essa crea anche un suo proprio fonotopo (zvukoprostor) in cui, nel fluire del tempo e attraverso una rete di rapporti infinitamente ricca, vanno a riverberarsi le nostre personali esperienze fono-temporali; anzi, ancora di più: la musica ha la capacità di influenzare attivamente e di trasformare la nostra personale percezione del tempo e dello spazio.

In che modo la musica influenza la nostra percezione?


Nel suo lavoro dedicato alle cosiddette «esperienze di picco» (peak-experience), lo psicologo americano Abraham Maslow sottolinea il mutamento nella percezione del tempo e dello spazio al verificarsi di tali esperienze. Ma la perdita della nozione di tempo e spazio non costituisce forse una delle più tipiche espressioni del completo abbandonarsi al flusso della musica?

La sensazione che una qualche composizione musicale sia stata molto più breve che non in realtà, o invece di una lunghezza insopportabile, è certo capitata un po’ a tutti. Ovviamente la musica lavora col tempo in maniera molto più varia e a tutti i diversi livelli in cui si struttura la percezione. Molto più raramente si assiste invece oggi a una consapevole riflessione sul mutamento della percezione dello spazio. Presenterò quindi una serie di esempi che credo di facile comprensione.

La musica riesce a suscitare nell’ascoltatore un’impressione di distanza o di vicinanza della sorgente dei suoni. La musica riesce a influenzare il nostro modo di percepire le dimensioni dello spazio nel quale essa risuona. La musica (e il suono in genere) è spesso percepita in maniera transmodale. Un caso specifico è rappresentato dalla sinestesia ma, anche in persone che non ne siano particolarmente dotate, il suono produce analogie con tutti gli altri sensi (in particolare con la vista) analogie che hanno la loro origine nelle nostre esperienze. Molto comune è associare automaticamente un essere o un oggetto, piccolo o grande, ad un suono alto o basso.

Un’altra analogia di tipo sensoriale può essere, ad esempio, associare l’altezza o la profondità dello spazio spettrale con l’impressione di trovarsi o di muoversi a un livello mediano. Bisogna però anche dire che musica e spazio sono fra loro intrecciati in maniera indissociabile e le possibilità di una loro reciproca interazione ampie.

La presenza del suono influenza la nostra percezione del tempo e dello spazio. L’architettura dello spazio liturgico costituisce l’articolazione spaziale (l’espressione visibile) del nostro rapporto con Dio. La musica che risuona nello spazio liturgico, muta tale rapporto di tipo spaziale in un segnale sonoro, trasformando la nostra percezione dello spazio liturgico (o, in generale, di qualunque tipo di spazio) in tempo. Non esiste altra maniera di riuscire a percepire lo spazio con l’udito se non attraverso un suono che perduri nel tempo; e, al contrario, in condizioni normali un suono che perduri nel tempo non può essere in alcun modo separato dall’ambiente nel quale risuona. Nella nostra esistenza, tempo e spazio sono allo stesso modo legati indissolubilmente come il corpo e l’anima.

Penso che all’interno della musica liturgica della Chiesa latina esistano due elementi specifici. Ed entrambi mostrano, per la loro stessa natura, una marcata capacità di trasformare la nostra percezione dello spazio e del tempo.

Mi riferisco all’organo e al canto gregoriano. L’organo, grazie al suo potenziale fonico, simboleggia per me l’uscire al di fuori di uno spazio delimitato (sicuro): quello della persona, della nazione, delle mura del tempio, della chiesa, dell’universo, della corporalità, della vita presente... Allo stesso tempo, la sua capacità di non spezzare mai il suono suggerisce che superare il confine non significa certo la fine.

Il canto gregoriano lavora in una sua specifica maniera col tempo. Eseguire un canto gregoriano è tutt’altra cosa dall’ascoltarlo. Quando cantiamo, la nostra esperienza soggettiva del tempo è diametralmente opposta rispetto all’esperienza del tempo durante l’ascolto. Nei melismi, il canto blocca lo svolgimento del testo per permettere di meditare sul significato delle parole e, allo stesso tempo, quasi ci stacca dal loro significato, offrendoci la possibilità di gettare uno sguardo ai segreti nascosti dietro alle nostre nozioni imperfette.

Un ruolo importante lo gioca anche il coincidere di tali segmenti con la respirazione di colui che canta. Il canto gregoriano ci porta a un’esperienza della preghiera fuori dal tempo e dallo spazio: attraverso la vibrazione del suono è come se mi facesse sprofondare dentro il mio stesso io, facendomi comprendere — nel più profondo di me — di non essere lì da solo a cantare, ma che Lui canta insieme a me, e in tal modo mi stacca da mio stesso io.

Il canto (e in particolare la salmodia antifonale) non è orientato soltanto verso l’interno, ma anche fuori di noi, costituisce cioè l’archetipo del dialogo tra due soggetti. E, allo stesso tempo, esprime anche il rapporto tra interno ed esterno, tra ciò che è personale e ciò che è estraneo. Nel momento in cui eseguiamo una salmodia antifonale, per noi — dal punto di vista della percezione della distanza — è fondamentale la differenza tra le singole risposte del canto, trattandosi infatti della differenza tra ciò che è vicinissimo (il suono che sgorga dentro di noi) e ciò che è lontano e ci risponde, completandoci. Attraverso l’esperienza di un fonotopo comune, però, anche ciò che era lontano diventa vicino e in tal modo noi diveniamo un elemento unico e irripetibile della comunità.

Gli istanti in cui cantiamo hanno la stessa importanza di quelli che circondano il canto. Diciamo infatti che anche il silenzio (una pausa) è parte della musica. Nella mia visione, la musica è da considerarsi come parte del silenzio. La musica dal silenzio nasce e nel silenzio svanisce. Ciò che noi chiamiamo silenzio vive in realtà dei suoni più flebili. Il silenzio è qualcosa di animato! L’esecuzione di un canto gregoriano e il suo risuonare nel silenzio che lo circonda sono per me l’espressione di un’apparizione (un’epifania) della presenza nascosta di Dio.

Nelle sue Confessioni, sant’Agostino descrive come profondamente fu colpito dall’esperienza del canto dei fedeli a Milano: «Quanto ho pianto di profonda commozione al sentire risuonare nella tua chiesa il sereno modulare dei tuoi inni e cantici! Quelle voci che scendevano alle mie orecchie favorivano il fluire della verità nel mio animo infuocandolo di devozione mentre le lacrime scorrevano: e io ne sentivo un gran benessere». Potrebbe sembrare che sant’Agostino si riferisca principalmente alla qualità del canto e alla bellezza delle melodie. Direi, però, che — in questo caso, ma anche nella musica in generale — la perfezione non è la cosa più importante.

In primo luogo c’è sempre, a mio parere, l’esperienza di una relazione autentica, forte, spesso difficile da descrivere, che in qualche maniera ci trasforma (trasforma la nostra percezione). Penso che quanto provato da Agostino nell’ascoltare i canti nella basilica di Milano possa essere considerato come l’esperienza di picco (peak-experience) che ha sollevato le paratie delle riserve e spazzato via tutte le ragioni e gli ostacoli, fino a quel momento insormontabili. Sono convinto che il mutamento della sua percezione e quel senso di solidarietà nei confronti degli altri credenti in quel fonotopo comune, abbia reso possibile anche una trasformazione del suo rapporto con Cristo e, di conseguenza, anche dei suoi atteggiamenti e dei suoi comportamenti. In questi giorni di pandemia da coronavirus siamo stati testimoni di un’analoga condivisione di uno stesso fonotopo in un certo numero di città italiane, dove le persone, chiuse in casa dai decreti governativi, escono sui balconi e in maniera del tutto spontanea cantano tutti assieme, spesso senza neanche vedersi l’un l’altro.

Sull’ascolto


Vorrei ora soffermarmi sull’ascolto, che considero assolutamente fondamentale. In conseguenza di una trasformazione significativa del paesaggio sonoro del pianeta Terra, sta pian piano cambiando anche il nostro modo di ascoltare. Nei dintorni delle nostre dimore è avvenuto che l’enorme gamma dei suoni più delicati, soprattutto quelli legati al mondo della natura, che nel lontano passato costituivano una componente del tutto ovvia del quotidiano, è stata da noi relegata sullo sfondo della percezione. Il compositore canadese Barry Truax parla addirittura di come l’ambiente delle nostre città ci insegni a non ascoltare. «Ovunque ci troviamo, quello che sentiamo è in gran parte rumore. Quando lo ignoriamo, ci disturba. Quando gli prestiamo ascolto, lo troviamo affascinante», aveva scritto John Cage già a metà del secolo scorso, in tal modo indicando profeticamente la necessità di un’attività volta ad una trasformazione dell’ascolto.

La capacità di riuscire a concentrarsi in un ascolto profondo e ricettivo non è una cosa che possa essere trasmessa se non attraverso una continua ed intensa esperienza personale, e tale esperienza può avvenire solo nel tempo: noi impariamo ad ascoltare attraverso un ascolto vigile e attento. Sono dell’opinione che una simile esperienza possa essere il catalizzatore di una trasformazione del nostro approccio all’ascolto delle altre persone come anche di noi stessi, socchiudendo la porta che impedisce che al nostro mondo interiore abbiano accesso il continuo cliccare su telecomandi e mouse, la zavorra dell’informazione e lo smog acustico-visuale che ci circondano, come anche l’uniforme paesaggio sonoro delle nostre città. Ovviamente le tecnologie non hanno un impatto esclusivamente negativo sul nostro ascolto. Grazie ad esse possiamo, ad esempio, scoprire che lo spazio sotto la superficie dell’acqua non è affatto il “mondo del silenzio”, come abbiamo invece a lungo pensato.

In ambito musicale, col termine “ascolto” mi riferisco al desiderio di sentire ciò che è al di là della superficie (al di là di quello che è il primo piano) delle percezioni sonore, la nostra capacità cioè di percepire il paesaggio sonoro che ci circonda allo stesso modo che se fosse musica. Un simile tipo di ascolto può condurci a un’esperienza di tipo spirituale. In ambito cristiano, una simile esperienza porta alla lode e alla consapevolezza della presenza di Dio, sempre e ovunque, in ognuno come anche in me, e che io sono in Lui. L’ascolto del paesaggio sonoro (dello spazio esterno) ci porta quindi ad un ascolto dello spazio personale che è all’interno di noi stessi. Dal punto di vista del cristiano, l'ascolto è inteso come il dono (charisma) di ascoltare la voce del Signore nel paesaggio sonoro del mondo di oggi, ovunque e in qualsiasi istante. Chi ascolta impara a distinguere.

«La città intontitrice delle anime ha reso l’uomo ottuso al punto che egli spesso non ha più senso per questo», scrive Romano Guardini (nello stesso periodo di Cage!), e ancora: «[Nella città] tutto è rumore e non v’è silenzio né intimità. Ma va’ fuori, per i seminati, oppure in un calmo boschetto, d’estate, quando il sole è allo zenith e la distesa è tutta una vampa — come ti riesce profondo tutto questo! Ti arresti e il tempo ti sfugge: l’eternità ti guarda faccia a faccia […] La nostra vita intera dovrebbe essere vicina all’eternità. In noi dovrebbe esserci sempre la calma raccolta che è aperta all’Eterno e gli presta ascolto».

Un mutamento di criterio


Per riuscire a sviluppare la nostra capacità di ascolto, dobbiamo soprattutto limitare la quantità e l’intensità degli stimoli sonori. Se i nostri sensi vengono esposti, per un certo tempo, ad una qualche parziale privazione (se ci troviamo, ad esempio, in un ambiente buio o silenzioso) la nostra percezione diventa particolarmente sensibile agli stimoli più delicati.

In una situazione del genere, i suoni che in circostanze normali percepiremmo più che altro sullo fondo, emergono in primo piano nella nostra attenzione. Tali esperienze risvegliano in me un’analogia col senso della pratica cristiana della quaresima: io concedo meno al mio corpo per essere poi più sensibile ai bisogni degli altri, per poter condividere ed essere quindi più vicino a Dio: per percepire la sua presenza. Il corpo non è solo cibo, ma anche stimoli sensoriali! Ricordiamoci, ad esempio, della tradizione quaresimale di coprire i quadri, o l’assenza dell’organo nel periodo del triduo pasquale.

A differenza degli altri sensi, noi non possiamo in alcun modo chiudere le nostre orecchie: di fronte a un suono indesiderato possiamo soltanto nasconderci (se abbiamo un luogo a disposizione) oppure produrre un suono ancora più forte che copra il suono indesiderato. Un’altra soluzione potrebbe essere porsi al suo ascolto. Facciamo caso a quante persone cercano di sopraffare i suoni di una metropoli utilizzando un altro suono che inviano nelle loro cuffie. Com’è invece di gran lunga più riposante rimanersene per un po’ all’interno di una chiesa nel bel mezzo di qualche incrocio particolarmente trafficato.

Non si tratta, in questo caso, di una fuga nel non-ascolto, ma di un mutamento nel criterio dell’ascolto. Le spesse mura della chiesa non vengono da me percepite come una cinta protettiva, bensì come una sorta di “filtro” che trasforma i suoni circostanti e attribuisce loro un significato nuovo, permettendoci così di ascoltarli in maniera diversa.

Una delle testimonianze più antiche di un mutamento radicale nel criterio dell’ascolto la troviamo nel Primo libro dei Re.

«[Elia] camminò per quaranta giorni e quaranta notti al monte di Dio, l’Oreb. Là entrò in una grotta per passarvi la notte […] Gli fu detto: “Esci e fermati sul monte alla presenza del Signore”. Ecco, il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento ci fu un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco il mormorio di un vento leggero. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna».

di Slavomír Hořínka